Nino Savarese, scrittore siciliano nato nel 1882 ad Enna, quando ancora la città si chiamava Castrogiovanni, e morto a Roma nel 1945, è una di quelle figure intellettuali che nel primo 900, e poi durante il fascismo, hanno rappresentato un modo diverso di far cultura, con una particolare attenzione ai movimenti d’avanguardia che puntavano a rinnovare la narrativa italiana, reagendo al positivismo in filosofia e al dannunzianesimo in letteratura.
Nel 1940 Savarese pubblicò “Cose d’Italia”, una raccolta di articoli e osservazioni di costume già apparsi sulla Gazzetta del Popolo dove un intero capitolo è dedicato alla Sardegna.
Il volume nella prima edizione fu pubblicato dall’editore Parenti di Firenze in sole 305 copie numerate, e riportava all’antiporta anche un ritratto di Savarese realizzato da Guttuso.
Nel 1943 il volume viene ristampato dall’editore Tumminelli e, con l’aggiunta di un nuovo capitolo, diventa “Cose d’Italia: con l’aggiunta di Alcune cose di Francia”.
Al 1991 risale l’ultima edizione di Sellerio, curata da Salvatore S. Nigro e con una nota di Enrico Falqui.
Il capitolo di “Cose d’Italia” dedicato alla Sardegna ci mostra un Savarese attento a raccontare aspetti segreti o poco noti della terra sarda, “..un lembo di terra ancora umido di una freschezza verginale”, resi in forma essenziale dal taglio giornalistico della narrazione.
In tale narrazione Savarese, che intuisce i cambiamenti che stanno per investire l’isola, evidenzia una forte preoccupazione che, riletta con il senno del poi, si rivela premonitrice di una situazione ancora oggi molto attuale:
“Il nostro illuso desiderio vorrebbe che su questa regione l’opera dell’uomo scendesse con un senso armonioso e discreto: che questa terra potesse illuminarsi della gentilezza del lavoro senza patirne gli eccessi; che gli uomini trionfassero della natura senza ucciderne la poesia.
Ma essi non saranno capaci di fermarsi in tempo. Gli ideali dei banditori del progresso non si fermano al risanamento delle paludi, alla viabilità ed al sapiente ed armonico sfruttamento della terra: non vogliono il benessere, hanno l’ingenuità di mirare alla felicità. Vogliono che anche la Sardegna diventi un paese insignificante.
Solo quando scomparirà questa umiliante pastorizia, e i Campidani saranno trasformati in serre ed aiuole per la coltivazione delle primizie e dei fiori artificialmente incrociati; quando tutti questi asinelli saranno rimpiazzati da altrettante macchinette da far rotolare per i sentieri e le scorciatoie di questi monti solitari; e i mille e mille nuraghi fumeranno nella fabbricazione degli oggetti più inutili; quando invece di fabbricar formaggi, e tessere tele di lino e panni di lana schietta, anche nella Gallura e nella Barbagia sorgeranno fabbriche di cotonine e di tele stampate; quando ai balconcini di Désulo o di Fonni le ringhierine di ginepro tornito saranno finalmente sostituite da due pilastrini di cemento armato; quando tutti questi vecchi patriarchi dalle barbe severe e i visi sereni saranno fatti sgombrare dalle piazzette, e rinchiusi in lunghe gabbie con un numero appeso al collo; quando sul colore dei costumi, così vari e lavorati, passerà il pennellone della tinta unita che ci farà riposare gli occhi; quando gli innumerevoli branchi dei mufloni, dei daini, dei cinghiali che popolano questi boschi, inseguiti da un esercito di macchine attraverso le quaranta miglia del Campidano, saranno buttati nel mare, verso il golfo di Lione; e gli inconvenienti del carattere di questi uomini scontrosi ed inflessibili, che hanno bisogno di schiettezza, di giustizia e di libertà, saranno curati con gli unguenti della dissimulazione e della perfida raffinatezza sociale, solo allora quei tali fautori del progresso dichiareranno risolti tutti i problemi della Sardegna!”