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La Sardigna, la Truffia e la Buffia

“Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi.
Per la qual cosa messom’io cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de’ Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio per quei paesi: e quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e ‘l vin nelle sacca: da’ quali alle montagne de’ bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla ‘ngiù.
E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, là dove io vi giuro, per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran mercante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio”.

Il brano è tratto dal “Decameron” di Giovanni Boccaccio. Si tratta della novella decima della sesta giornata, la novella dove si narra di Frate Cipolla e della sua predica ai cittadini di Certaldo, durante la quale racconta il suo viaggio in terre esotiche immaginarie (la Truffia e la Buffia) e reali (tra cui la Sardegna), da dove riporta sacre reliquie, tra cui una piuma dell’ala dell’Arcangelo Gabriele. Piuma che due burloni sostituiscono con una manciata di carboni. Il frate, al momento di presentare la reliquia, si rende conto della sostituzione ma non si perde d’animo e presenta i carboni come reliquia in quanto “avanzo” di quelli utilizzati per bruciare San Lorenzo, con il risultato che i burloni furono burlati!

La copia del Decamerone in mio possesso, è in dieci volumi rilegati in tela, stampata in seconda edizione dall’editore Formiggini, tra il 1922 e il 1924 (la prima edizione è del 1913), nella collana “I classici del ridere”.
L’opera ha la caratteristica che ogni volume è arricchito dalle incisioni xilografiche di un artista del periodo.
Il decimo volume è illustrato da Mario Mossa De Murtas (1891-1961), artista sassarese, che utilizzò le stesse incisioni anche sulla rivista L’Eroica (fascicolo I/II/III del 1915), dove veniva presentata una rassegna delle avanguardie artistiche italiane in merito all’incisione. Sullo stesso numero de L’Eroica comparivano anche le incisioni di Giuseppe Biasi, altro grande artista, considerato dalla critica il più importante artista sardo del ‘900.

La Sardegna di Alberto Frattini

Alberto Frattini (Firenze 1922 – Roma 2007), padre dell’attuale Ministro degli Affari Esteri, critico, poeta e professore universitario, nel 1969 pubblico un volume, “Scoperta di paesi”, di impressioni di viaggio, che raccoglieva note in stile “giornalistico” redatte dall’autore tra il 1944 e il 1966.
Il volume, pubblicato dall’Istituto Propaganda Libraria di Milano, riporta anche un capitolo dedicato alla Sardegna e a Cagliari in particolare.
Lo scritto risale al 1945 e Fratini riporta le impressioni sulla città martoriata dai bombardamenti: “qua e là, sul quadro panoramico, sono ben visibili i guasti dei bombardamenti … il porto dà un senso di squallore, di abbandono. Pare che anche la vita qui intristisca, come i radi ciuffi d’erba sulle rovine”.
Fratini continua il suo giro in città e non può fare a meno di sottolineare la “inquietante carenza di efficienti organi che mettano in valore le risorse naturali di questa non fortunata regione”.
L’isolamento storico della Sardegna è per Fratini la causa principale dell’abbandono dell’isola e “abbiamo sentito ripetere da più di un sardo che Roma abbia trattato l’isola né più né meno che come una colonia da sfruttare”. Nelle sue considerazioni, Frattini non manca di sottolineare “che di ciò i vari governi centrali debbano dividere le responsabilità”.
Nella sua narrazione, poi, Frattini racconta della visita alla Manifattura Tabacchi dove gli ambienti risultano saturi dalle esalazioni della lavorazione del tabacco. “”L’atmosfera – scrive – è come pervasa da un sottile aroma inebriante che a lungo andare dà, mi dicono, leggere vertigini. Più o meno tutte le lavoranti, donne di ogni età, recano nel fisico tracce di questo veleno profumato … il rosa diventa per i loro visi un colore perduto per sempre”.
E la “denuncia” continua segnalando le immani difficoltà in cui versa la popolazione: “Anche i poveri qui sono diversi da quelli del continente: un’altra fisionomia, si direbbe un’altra tragicità”. Poi la siccità, le cavallette, il bestiame che muore. In una parola un flagello.
“I sardi però non disperano”, continua Frattini, “credono nel lavoro, non si perdono nella cattiva sorte”.
Poi le considerazioni politiche: “Qua la gente, mi dicono, si occupa poco di beghe politiche, che non son fatte per chi ha l’assillo del lavoro e della fame: sembra però che il programma che riscuote i maggiori consensi sia quello impostato sulla formula autonomistica” che, per Frattini, “finisce per smarrire il senso della solidarietà nazionale”.
Frattini quindi, conclude con una valutazione: “Tuttavia per un paese come la Sardegna in cui le diverse forme di vita sociale ed economica sempre più necessitano di un incremento evolutivo non crediamo che la tendenza isolazionistica, risultante da una conseguente autonomia, potrebbe domani costituire una fruttuosa conquista”.

La Sardegna di Walt Disney

Tra il 1953 e il 1960 Walt Disney produsse una serie di documentari di genere etnografico, generalmente indicati con il titolo di “Genti e paesi”.
Uno di questi documentari, uscito nel 1956, è dedicato alla Sardegna. Mentre il titolo in inglese era semplicemente “Sardinia”, il titolo in italiano diventò “Sardegna antica”.
La serie dei documentari, nel 1967, diventò un libro che, sempre col titolo “Genti e paesi” venne pubblicato da Mondadori.
In questo volume i Sardi sono in compagnia di altri popoli “primitivi” come i Navajos, gli Uomini Blu del Marocco, i Lapponi o i popoli dell’Amazzonia. Alla Sardegna sono dedicate 14 pagine e una ventina di foto a colori che illustrano alcuni aspetti di vita quotidiana nell’isola: pescatori, contadini, donne al telaio, feste, ricamatrici e altro, costituiscono l’apparato iconografico del libro.
E la storia della Sardegna, l’agricoltura, la pastorizia, gli usi e costumi, sono descritti in modo quasi “epico”, come testimonianza vivente di pratiche e modi di vivere di un’altra epoca.
Ad esempio, per raccogliere le castagne, “Donne e uomini si arrampicano sui rami dell’albero e li scuotono uno ad uno per farne cadere i ricci col frutto. … si aprono quindi i ricci battendoli con una pietra o con qualunque oggetto duro…” .
Così è anche quando si parla di feste il tono non cambia. L’Ardia di Sedilo è descritta come un grande carosello con “grida e fucilate dappertutto, con i cavalli che si urtano e tutti si divertono molto”. I costumi sono “fastosi” e indossati con orgoglio. Il copricapo più tipico è il “berretto da mugnaio” (?) che i sardi trovano molto utile per riporvi piccoli oggetti o “un cantuccio di pane da mettere sotto i denti nel caso che la fame si faccia sentire”.
Un mondo descritto, dunque, in un modo alquanto artefatto per esigenze di “spettacolo” che, comunque, mantiene il suo fascino, facendo intravvedere alcuni spaccati di vita quotidiana, anche se in una visione idilliaca della Sardegna, fatta di gente ospitale, felice, nei suoi costumi variopinti e ostinata nel perpetrare usi e tradizioni del passato.
Documentario e libro, comunque, anche se con una chiosa tutta disneyana, non possono fare a meno di sottolineare come la Sardegna sia in piena trasformazione: “E così cambia anche la vita del sobrio popolo sardo, e molte tradizioni, alcune belle altre meno, scompaiono. Ma non scomparirà mai la laboriosità e la profonda e gentile ospitalità di questo popolo: ci auguriamo anzi che tanti begli usi folcloristici sopravvivano per la gioia degli occhi e del cuore”.

La Sardegna di Mario Soldati

Il vino è qualcosa che vive e che fa parte della nostra vita, raccontarlo vuol dire parlare di noi, di persone e di paesaggi”. Questo scriveva Mario Soldati (1906 – 1999), e con questo spirito lo scrittore, nel 1975, affrontò il suo viaggio in Sardegna.

"Vino al vino" edizione Oscar Mondadori 1981 con i disegni di Francesco Tabusso

L’occasione gli fu data dal fatto che in quell’anno Soldati inizio il suo terzo viaggio alla scoperta dei vini italiani. I primi due viaggi avevano dato vita ad altrettanti volumi pubblicati con il titolo di “Vino al vino” rispettivamente nel 1969 e nel 1971.
Il terzo viaggio iniziò appunto con la Sardegna: “In quest’isola di gente dura, seria, dignitosa dovevo fermarmi solo pochi giorni, e invece rimarrò un mese”, scrisse Soldati.
E fu un mese intenso, alla scoperta dei vini, della Sardegna e dei sardi, facendosi accompagnare dagli scritti di Lawrence e, per i vini, dai consigli di Veronelli.
Il resoconto, oltre che nel terzo volume di “Vino al vino” (pubblicato nel 1975), apparve sotto forma di articolo anche sul numero 1359 della rivista “Epoca” del 20 ottobre 1976.
In dodici pagine di testo, con le foto di Giorgio Lotti, Soldati percorre strade, scopre vitigni, degusta vini, conosce persone. Annota e descrive tutto con la dovizia di dettagli tipica del grande cronista.

Soldati a Saccargia in una foto di Giorgio Lotti

Alcuni passi del suo viaggio sono veri e propri pezzi di bravura narrativa, come quando racconta del suo vagare per Sassari, una domenica mattina, alla ricerca di un barbiere aperto, o quando descrive la “Disneyland isolana” chiamata Costa Smeralda, o quando ancora entra nei dettagli del pranzo consumato a “Su Gologone” presso Oliena, oppure quando ricorda la ragazza del passaggio a livello di Bortigali, “Lucidi capelli neri. Un visetto da capra. Sottili gambe lunghe” .
Ma il meglio di se Soldati lo da quando parla dei vini: i tanti vini artigianali, che lo colpiscono per la varietà di gusti e di nomi (“Se esiste un vino che è vero soltanto quando non ha etichetta e quando non ha nome, è dunque il vino sardo”), la “luminosa” Malvasia di Bosa, la Vernaccia di San Vero Milis dal profumo deciso e intenso.
E parlando della Vernaccia, Soldati spiega il senso di armonia e di equilibrio legato al vino: “Un bicchiere di vino buono deve sempre dare una sensazione naturale di piacere, che eviti quell’urto, che escluda da parte nostra quello sforzo per superare, al primo contato con le papille gustative, come uno scalino.
Se l’acqua, infatti, è una roccia liquida filtrata attraverso strati di rocce solide benché terrose, il vino non è che acqua successivamente filtrata attraverso tessuti vegetali e viventi. Il vino è dunque un’acqua vivente, e un bicchiere di vino buono deve sempre assomigliare un po’ a un bicchiere d’acqua. Un bicchiere d’acqua quando il nostro corpo ha sete è come un bicchiere di vino quando ha sete la nostra anima. Ecco perché un pasto senza vino mi fa pensare a un bambino incapace di ridere”.
Molti giudizi di Soldati sono alquanto critici per l’eccessiva “industrializzazione” del prodotto che rischia di far perdere quel carattere di unicità che distingue la singola annata e, addirittura, la singola bottiglia. Sono giudizi che in Sardegna Soldati riserva ad alcune cantine sociali, sempre nella convinzione che “nel vino, come nella cucina, può succedere che il parere di una persona sola sia più giusto del parere di milioni di persone”.
E dopo un mese di vagare, Soldati lascia “la Sardegna, con i suoi spazi immensi e deserti, con i suoi altipiani rocciosi e tutti insieme sollevati in massa sul mare”. Una Sardegna che non esita a definire “pittorica” per l’assenza assoluta del pittoresco.
Una Sardegna che lascia con il rimpianto di non aver potuto visitare Carloforte e gustare i suoi vini, “ma proprio queste rinunce – scrive – , queste attese di un ritorno, questi desideri di scoprire ancora, si depositano nell’animo e innamorano di un paese”.

 Per chi volesse “viaggiare” nei vini italiani, l’ultima edizione di “Vino al vino”, che raccoglie i tre viaggi di Mario Soldati, è stata edita da Mondadori nella collana “Oscar grandi classici”, nel 2006. In questa edizione da leggere anche l’introduzione di Domenico Scarpa che traccia una “maestosa” figura di Mario Soldati e della sua opera.

La Sardegna di Carlo Levi

Spinto dalla sua personale ricerca e scoperta del Sud, tra il 1951 e il 1952 Carlo Levi (1902-1975) compì un viaggio in Calabria, da Melissa alla Sila, accompagnato da Rocco Scotellaro, visitò la Sicilia e, per la prima volta, approdò in Sardegna.
La cronaca di questo primo viaggio in Sardegna venne pubblicata in due puntate su L’Illustrazione Italiana, nei numeri 6 e 7 di giugno e luglio del 1952, accompagnata da numerose foto scattate da Federico Patellani e dallo stesso Levi.
Nel suo viaggiare, Levi trova una Sardegna caratterizzata da differenti modi di vita che convivono, uno vicino all’altro: “Una civiltà di pastori si trasforma in parte in una civiltà contadina, tra lotte e contrasti continui, e sorgono centri operai, come isole in un deserto, e se ne sente il peso e l’influenza sul costume”.

Carlo Levi, “Autoritratto”, 1945, olio su tela, cm 42x34, Roma, Fondazione Carlo Levi

Cagliari è ancora profondamente ferita dai bombardamenti della guerra e Levi rimane colpito dalla moltitudine di persone che popolano le “grotte” di S.Avendrace e i cunicoli del teatro romano; centinai di uomini, donne e bambini “…rintanate nei buchi, nei cubicoli attorno alla platea, in ogni incavo di quella sassosa e solenne meraviglia”.
A Carbonia Levi è sorpreso da “quel fervore di libertà e di affermazione della persona umana … dove in pochi anni si è creato da un gruppo raccogliticcio di braccianti disoccupati e di contadini uno scelto proletariato industriale moderno..”.
Sono osservazioni in linea con il tema del riscatto del Sud, del crescere e progredire delle masse contadine, tanto caro a Levi e che sempre caratterizzerà i suoi scritti e la sua opera pittorica.
Levi viaggia nel sud della Sardegna disegnando e descrivendo figure e paesaggi, sottolineando con attenzione dettagli non sempre evidenti: “A Teulada le donne sono bellissime e selvatiche, e voltano la schiena con un rapido giro che fa oscillare le lunghe sottane…” “A Giba ci vengono incontro in bicicletta delle donne in costume: strana visione nella pianura assolata” .
L’articolo si chiude con Levi che lascia il Campidano per avviarsi verso il Gennargentu: “… le solitudini coperte di asfodeli della montagna, e Aritzo e Tonara e Nuoro, verso la misteriosa Sardegna di Orgosolo, di Oliena di Orune, dei paesi di pastori, che mi parevano ancora avvolti in un’ombra lontanissima”.
E quella Sardegna sarà meta del secondo viaggio di Carlo Levi nell’isola, nel 1962. Un viaggio che darà vita al volume “Tutto il miele è finito”, pubblicato da Einaudi nel 1964.
Il libro, che prende il titolo da un canto funebre dove la madre piange il figlio assassinato, paragonandolo al miele che non c’è più, descrive luoghi e volti dell’interno: Nuoro, Orgosolo e Orune in particolare, a cui è dedicato anche il dipinto in copertina. “Orune – scrive Levi – è per me uno dei luoghi della fantasia e della memoria; forse per il suono del suo nome, forse perché l’ho tenuta nella mia casa per anni nella sua forma di uccello, di snella, selvatica carroga dai neri occhi lucenti, con cui avevo finito, in qualche modo, per identificare quel paese, quei monti, quel vento d’aprile, e la cucina vecchia, nera di antico fumo, e gli attitos, e le poesie, e i balli sardi, e i pastori, e i ladri di pecore, e i latitanti di un mondo archeologico e presente”.
Una descrizione “barbarica e fiabesca”, come ebbe a scrivere Franco Antonicelli a proposito del libro di Levi, ma comunque vera, che con spaccati di vita reale, quasi da cronaca in diretta, entra nel merito di problemi quotidiani e sociali della comunità, completando e integrando quella visione di Orune “sul cocuzzolo grigio di una vetta di granito” descritta da Grazia Deledda in “Colombi e sparvieri”.
Uno stile narrativo che permea tutto il libro di Levi, rendendolo una delle più belle testimonianze sulla terra sarda: “una Sardegna di pietre e di pastori, e di uomini moderni e vivi”.

P.s.: Chi volesse leggere la bellissima storia della cornacchia “Orune” che Carlo Levi dalla Sardegna si portò a Torino, può farlo consultando il volume “Le ragioni dei topi. Storie di animali”, Donzelli Editore, 2004

La Sardegna di Massimo Bontempelli

Nel 1930 Massimo Bontempelli (1878-1960) pubblicò il volume “Stato di grazia”, edito dalla casa editrice Stock di Roma in una edizione quasi limitata, con diffusione riservata a pochi amici.
Qualche anno dopo, per le edizioni “Panorama” di Milano, pubblica “Pezzi di mondo”, una raccolta di pagine di viaggio dove compare un capitolo, datato 1931, dedicato alla Barbagia. Il volume è del dicembre 1935, ha la copertina in carta paglia e, come si legge nella copertina posteriore, risulta “stampato in Italia nel tempo dell’assedio economico”.
Nel 1942 l’Editore Sansoni di Firenze, sotto il titolo “Stato di grazia” ristampa i due testi in un unico volume.

Nelle sette pagine dedicate alla Barbagia, Bontempelli racconta del suo viaggio a cavallo per i paesi dell’interno: “Sopra uno di questi lenti cavalli, avvolto dall’odore della volpe e dall’odore della capra, ho girato tutta la Barbagia di Ollolai, facendo centro a Orgosolo, spingendomi per strade e viottoli fino a Mamoiada fino a Fonni fino a Oliena fino a Gavoi; e per le calde vigne di Locoe, e nel vallone di Sorasi; su per l’altipiano di Sant’Antioco; verso le falde prime del Gennargentu”.

Da sinistra Vincenzo Cardarelli, Massimo Bontempelli, e Alberto Savinio in una foto del 1920

Nel suo vagare lo scrittore è attratto da un aspetto “geologico” che tutto riconduce, anche gli esseri umani, alle pietre e all’arido terreno.
Di tratto in tratto m’assale il dubbio che tutta questa terra sia intimamente cosciente del suo aspetto di vasta desolazione, che vi sia in tutto questo una affettazione di sterilità. Certo qui domina uno spirito geologico, geologici documenti appaiono anche i rari uomini, che colorati dai riflessi dello stinco bruciato, lenti movono su lontani pendii. Ma ogni tanto un ontano inchioda alla roccia il filo curioso d’una sorgente; in fondo alle valli strisce argentee o tremule di pioppi segnalano e disegnano il tenue corso di un’acqua.
Sotto i macchioni segreti s’agita e silenziosa corre una fauna rigogliosissima di quadrupedi rapidi e di pomposi uccelli. Li ho visti muoversi e vivere e di mala morte morire. Ma nell’occhio l’anima si manteneva in una sorda immobilità. Ho capito allora che tutti son nati di pietra. Gli uccelli volano bassi schiacciati al suolo dalle nuvole dure e dal peso del loro corpo. I falchi spingono avanti inutilmente il petto di peperino lucido, le abbaiole par che debbano perdere nel vento le ali di malachite: voli innumerevoli di storni tratti chi sa come dal basalto intagliabile; e perfino le gazze e i passeri, tutto è nato di pietra, colorata pietra e ben tornita e morbida ma greve. Pietra è il loro cuore e l’occhio. Non si spaventano, nell’agonia non gemono; colpiti muovono sempre più lento le ali e le restringono, e tutto il corpo cosi rattrappiscono piano piano, fino a perdere la forma animale, diventare un ciottolo. A tenerli in mano morti non danno angoscia; ma fa ribrezzo toccarli vivi, come farebbe un animale meccanico”.
In questo suo vagare per una terra dove “Tutti gli animali, uomini e donne compresi, e la terra e l’aria e tutte le cose e i loro movimenti, mandano un ardente odore di capra”, Bontempelli continua la sua disamina che mette sullo stesso piano bestie e uomini: “Poi ci sono i cavalli, gli asini, le capre, i maiali, le pecore, i cani. Sono impastati di terra e sassi, in modo grossolano e primitivo, pieni di poesia e bellezza. Sono magri, sudici, annosi e sterili. L’aspetto della sterilità avvolge la Barbagia fino nelle sue donne. Le quali sono tenuissime e pallide e difese dalle sette gonnelle sovrapposte, come vuole il costume”.
La descrizione si sofferma sul costume e le donne che lo indossano, “nero con la camicia bianca chiusa sul petto”, assumono l’eleganza delle rondini.

Costumi della Barbagia in una cartolina degli anni '20

Bontempelli confessa poi che “Qui in Sardegna, o almeno qui in Barbagia, mi accade per la prima volta che il costume regionale e tradizionale non mi dia l’intenso fastidio che tali costumi m’han dato sempre e dappertutto, da Capri alle isole dello Zuidersee. Perché qui esso non è diventato folclore, lo portano in piena sincerità, non sanno che è costume”.
Lo scrittore racconta di aver avuto “l’allucinante certezza” di trovarsi in una scena da Odissea entrando in uno “stazzu” del Supramonte: “un gran fuoco di legna è in terra nel mezzo, sulle prime ti par d’essere piuttosto in una rudimentale fucina che in una cucina. Da quel centro di vulcano il fumo con una nobile spirale girando va a uscire per varii buchi del tetto. Presso il fuoco un vecchio di ottant’anni in costume seduto in terra sta facendo cuocere un quarto di porco. Lo regge infilato in un lungo stecco di durissimo legno, e cosi lo gira pianamente entro il caldo del fuoco; ora lo avvicina ora lo discosta, tiene più a lungo presso la brace le parti più muscolose e solide, allontana invece le parti grasse onde loro non giungano del gran calore se non attenuate carezze: alterna in tal modo e varia di continuo il viaggio della carne tra le zone del calore con una serie di accortezze secolari. Mangiando poi di quel porco ho capito per la prima volta il peccato della gola; anche ho capito che l’arte cucinaria, esattamente come la poesia, nasce perfetta all’origine e non può nulla imparare dalla esperienza dei secoli”.
Prima di rimontare a cavallo Bontempelli domanda a uno di questi vecchi: “Hai mai visto il mare?”. La risposta è lapidaria: “Neppure Mamoiada vidi. Ma il mare un fiume terribile è. Dalle cime di sasso onde stiamo per allontanarci, tutt’intorno dilaga la terra arida. Lui la guarda e senza sorridere dice: “Terra sicura”.
E lo scrittore si avvia su quella “terra sicura”, verso valle dove dominano gli aromi del serpillo e del timo, lasciando alle cime del Supramonte e ai suoi abitanti di pietra, “l’universale odore della capra”.

La Sardegna di Nino Savarese

Nino Savarese, scrittore siciliano nato nel 1882 ad Enna, quando ancora la città si chiamava Castrogiovanni, e morto a Roma nel 1945, è una di quelle figure intellettuali che nel primo 900, e poi durante il fascismo, hanno rappresentato un modo diverso di far cultura, con una particolare attenzione ai movimenti d’avanguardia che puntavano a rinnovare la narrativa italiana, reagendo al positivismo in filosofia e al dannunzianesimo in letteratura.
Nel 1940 Savarese pubblicò “Cose d’Italia”, una raccolta di articoli e osservazioni di costume già apparsi sulla Gazzetta del Popolo dove un intero capitolo è dedicato alla Sardegna.
Il volume nella prima edizione fu pubblicato dall’editore Parenti di Firenze in sole 305 copie numerate, e riportava all’antiporta anche un ritratto di Savarese realizzato da Guttuso.
Nel 1943 il volume viene ristampato dall’editore Tumminelli e, con l’aggiunta di un nuovo capitolo, diventa “Cose d’Italia: con l’aggiunta di Alcune cose di Francia”.
Al 1991 risale l’ultima edizione di Sellerio, curata da Salvatore S. Nigro e con una nota di Enrico Falqui.

Il capitolo di “Cose d’Italia” dedicato alla Sardegna ci mostra un Savarese attento a raccontare aspetti segreti o poco noti della terra sarda, “..un lembo di terra ancora umido di una freschezza verginale”, resi in forma essenziale dal taglio giornalistico della narrazione.
In tale narrazione Savarese, che intuisce i cambiamenti che stanno per investire l’isola, evidenzia una forte preoccupazione che, riletta con il senno del poi, si rivela premonitrice di una situazione ancora oggi molto attuale:

“Il nostro illuso desiderio vorrebbe che su questa regione l’opera dell’uomo scendesse con un senso armonioso e discreto: che questa terra potesse illuminarsi della gentilezza del lavoro senza patirne gli eccessi; che gli uomini trionfassero della natura senza ucciderne la poesia.
Ma essi non saranno capaci di fermarsi in tempo. Gli ideali dei banditori del progresso non si fermano al risanamento delle paludi, alla viabilità ed al sapiente ed armonico sfruttamento della terra: non vogliono il benessere, hanno l’ingenuità di mirare alla felicità. Vogliono che anche la Sardegna diventi un paese insignificante.
Solo quando scomparirà questa umiliante pastorizia, e i Campidani saranno trasformati in serre ed aiuole per la coltivazione delle primizie e dei fiori artificialmente incrociati; quando tutti questi asinelli saranno rimpiazzati da altrettante macchinette da far rotolare per i sentieri e le scorciatoie di questi monti solitari; e i mille e mille nuraghi fumeranno nella fabbricazione degli oggetti più inutili; quando invece di fabbricar formaggi, e tessere tele di lino e panni di lana schietta, anche nella Gallura e nella Barbagia sorgeranno fabbriche di cotonine e di tele stampate; quando ai balconcini di Désulo o di Fonni le ringhierine di ginepro tornito saranno finalmente sostituite da due pilastrini di cemento armato; quando tutti questi vecchi patriarchi dalle barbe severe e i visi sereni saranno fatti sgombrare dalle piazzette, e rinchiusi in lunghe gabbie con un numero appeso al collo; quando sul colore dei costumi, così vari e lavorati, passerà il pennellone della tinta unita che ci farà riposare gli occhi; quando gli innumerevoli branchi dei mufloni, dei daini, dei cinghiali che popolano questi boschi, inseguiti da un esercito di macchine attraverso le quaranta miglia del Campidano, saranno buttati nel mare, verso il golfo di Lione; e gli inconvenienti del carattere di questi uomini scontrosi ed inflessibili, che hanno bisogno di schiettezza, di giustizia e di libertà, saranno curati con gli unguenti della dissimulazione e della perfida raffinatezza sociale, solo allora quei tali fautori del progresso dichiareranno risolti tutti i problemi della Sardegna!”

Mario Berlinguer, avvocato penalista

Ricorre in questi giorni l’anniversario della morte di Enrico Berlinguer (11 giugno), un personaggio politico unico per serietà, ancora oggi da tutti ricordato come esempio da seguire se si vuole fare politica in modo corretto e nel rispetto delle istituzioni.
Molto del carattere di Enrico derivava dalle tradizioni di famiglia che avevano visto suo nonno, Enrico anche lui, e su padre Mario sempre impegnati con le forze democratiche e liberali.

Mario Berlinguer in una foto del 1930

In casa mia dei Berlinguer ne ho sempre sentito parlare, di Mario prima e di Enrico poi.
Mario, oltre che per la sua attività politica che lo vide in Parlamento sino al 1963, era molto stimato per la sua attività di avvocato che gli dava modo di esercitare quell’arte oratoria molto apprezzata nelle aule di giustizia sarde.
Era poi quella stessa arte utilizzata nello scrivere articoli e testi, spesso divertenti, anche quando erano destinati a qualche specialistica rivista di legge.
Un esempio è l’articolo Folklore giudiziario sardo, apparso sulla rivista “L’Eloquenza” nel 1923 (Anno XII, 1923 – Pag. 681).
In questo scritto, Mario Berlinguer, nonostante la tragicità del racconto, riporta un fatto dove traspare quello spirito e quel sarcasmo che caratterizza, i sardi e che, nel nostro caso, evidenzia la peculiarità di alcuni compaesani Oranesi.
I fatti narrati da Berlinguer hanno origine nel 1906, quando moriva assassinato l’allora sindaco di Bitti Angelo Mossa. Il processo ai presunti responsabili si trascinò per anni e vide coinvolti due oranesi. Berlinguer racconta proprio il confronto tra i due oranesi, Mereu (niente a che vedere col sottoscritto) e Cavada: “… nel clamoroso processo per l’omicidio del sindaco di Bitti un brillantissimo duello dialettico si svolse fra il principale imputato, il sicario Cavada, e uno dei testimoni dell’accusa, Mereu, entrambi nativi di Orani e trapiantati (il P.M. Onofrio Fois, un magistrato di tempra superiore, diceva “perfezionati”) a Bitti. il Mereu deponeva con tranquilla disinvoltura che pochi giorni prima che in una danza carnevalesca nella piazza principale del paese venisse ucciso il sindaco da un uomo camuffato, il Cavada gli aveva proposto di far parte del complotto ordito per l’eccidio, offrendogli mille lire di compenso. Cavada ascolta, poi si drizza sui garretti sottili, si afferra convulsamente alle sbarre della gabbia, pallido, opaco in quel suo viso felino ove rilucevano solo gli occhi vividissimi, e domanda con voce pacata il permesso di chiedere al testimonio notizie sulle sue condizioni economiche … e sullo stato di servizio del cartellino penale. «Son poverissimo, risponde il Mereu; e dopo una pausa: è vero, sono stato condannato per truffa, per appropriazione indebita, per ricettazione, per frode in commercio» (aveva solcato tutto l’arcipelago del piccolo cabotaggio dei reati contro la proprietà). E allora Cavada avventa la sua obiezione, precisa, formidabile: «Come si può credere che avendo io offerto a questo straccione, a questo criminale già tante volte bollato, mille lire, egli non le abbia accettate?». Ma Mereu è più scaltro di lui; non si scompone, sceglie per rispondere una di quelle battute inattese, umoristiche che danno l’impressione irresistibile della spontaneità, e con l’aria di un commesso viaggiatore che sfoderi il suo campionario, dolente che gli manchi la mercanzia richiesta dal cliente: «Ite cheret, su presidente (che vuole, Signor Presidente) custu de facher mortes no fit articulu meu (alla lettera: questo di commettere omicidi non era articolo mio!)».
Questo e altri scritti di Mario Berlinguer sono raccolti nel volume “In Assise – Ricordi di vita giudiziaria sarda”, pubblicato da Mondadori nell’agosto del 1944, ristampato ad aprile del 1945 e, a quanto mi risulta, mai più pubblicato.
Se qualche editore si vuole cimentare nel riproporlo, tenga presente che il libro ha sicuramente ancora una sua validità, se non altro come memoria di un testimone importante, della vita politica e giudiziaria in Sardegna e non.

Brera e i ciclisti di Sassu

Finisce il Giro d’Italia che per un paio di settimane ha attraversato la penisola, regalando emozioni forti come solo il ciclismo sa regalare.
Io, amante delle due ruote (da spettatore e non da praticante), ancora mi emoziono per uno sprint o per l’impresa di uno scalatore che domina la montagna pigiando sui pedali, e ogni volta che alla televisione vedo le immagini, vado col pensiero a quando ho iniziato a divorare le cronache scritte da quel giornalista-scrittore che era Gianni Brera, capace di raccontare una corsa con l’enfasi di uno di quei romanzi d’appendice che, una volta iniziato, non riesci a mollare finché non l’hai finito.
Di Brera conservo un bellissimo libro (Gianni Brera, I ciclisti di Aligi Sassu – Disegni, Edizioni della Seggiola, 1980) dove il giornalista presenta una serie di disegni di Aligi Sassu dedicati al ciclismo, un tema che l’artista ha trattato per tutta la sua carriera.
Un amore quello di Sassu per il ciclismo che Brera riconduce all’infanzia di Aligi (milanese di nascita, di padre sardo e di madre emiliana) nella Milano degli anni 20. “Il giovanile abbandono”,  del futuro artista per la bicicletta, “il cavallo inventato dall’uomo”, con la quale percorre le strade di Lombardia, fu un vero e proprio amore, coltivato da Aligi Sassu a livelli quasi agonistici e, come scrive Brera, “lo stesso sport che l’ha tentato da giovane diviene pacato rifugio in Arcadia”.
Brera riconduce la passione ciclistica di Sassu al sangue sardo che scorre nelle vene dell’artista, quel sangue berbero che, in mancanza di un “cavallo assatanato” come quelli cantati da Sebastiano Satta, lo porta a montare il “cavallo inventato dai meccanici”.
Ma Brera si esalta al massimo (“mi commuovo” scrive), nel descrivere Fausto Coppi; non il Coppi reale, ma il Coppi disegnato da Sassu. “Fausto Coppi è un airone giovane e triste. Gli si legge negli occhi un drammatico destino. Aligi ne disegna lo sterno da uccello, le gambe spropositate (che poi asciugherà la fatica improba della strada), il lungo naso che spiove sulla bocca amara: la balenante immagine d’un pesce che inghiotta plancton in un fondale aspro e disagevole: Ahimè, quasi nulla può la fantasia, al cospetto d’un cavallo inventato dai meccanici. Coppi lo incanta per com’è brutto, all’apparenza, quando cammina con l’impaccio d’un papero fuori dall’acqua, e per come invece trascina quando l’agonismo lo accende. La simbiosi fra uomo e bicicletta permane un mistero che la matita, per quanto abile, non può svelare. Così, d’istinto, Aligi si astiene dal tragico in ciclismo. Ed io proprio di questo mi commuovo, perché ne conosco i giovanili abbandoni, l’estasi di auto glorificazione immobile (i sogni di gloria a tutti pedali!)”

Sirio Midollini: un amico della Sardegna

Sarà inaugurata il prossimo 28 maggio una mostra che permetterà di apprezzare l’opera artistica di Sirio Midollini, pittore esponente di spicco del Neorealismo, tra i fondatori del movimento di “Nuova Corrente”, scomparso a Firenze a 83 anni nel 2008.
Artista autodidatta, Midollini girò a lungo l’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta per cogliere le trasformazioni di una società agraria verso la modernità: i suoi quadri figurativi immortalano i pastori della Sardegna, le donne della Calabria, i contadini dell’Abruzzo secondo la migliore tradizione neorealista riletta con una forte attenzione poetica.
Midollini, che iniziò a lavorare come disegnatore al Pignone dove, nel 1953 fu licenziato per la sua militanza nel Partito comunista, ha avuto una intensa attività artistica che, nel 1959, con i pittori Bruno Pecchioli, Xavier Bueno, Piero Tredici, Leonardo Papasogli e Manfredi Lombardi, lo portò a fondare il movimento “Nuova Corrente”.
Ho conosciuto Midollini quando ancora dipingeva nello studio di Borgo de Greci a Firenze. Uno studio collocato al quarto piano, senza ascensore, in uno storico palazzo tra Piazza Santa Croce e Piazza Signoria. Quello studio dove salì anche il presidente Sandro Pertini che volle personalmente acquistare un quadro raffigurante alcuni contadini della Sardegna.
Quello studio offriva una vista splendida ma richiedeva una fatica indicibile per arrivarci, tanto che Midollini dovette lasciarlo in quanto, negli ultimi anni, per lui era diventato impossibile poter lavorare lassù in cima. E lassù in cima, in quell’abbaino sopra i tetti di Firenze, Midollini mi parlò del suo rapporto con la Sardegna. Una voce esterna all’Isola, la sua, ma molto più “sarda” di quella di tanti sardi che non sanno guardare o capire la loro terra.
Midollini vedeva la Sardegna con gli occhi dei contadini, dei pastori, della gente semplice che lotta quotidianamente per riscattarsi. E nei suoi quadri i volti rivivevano, cosi come rivivevano quei colori forti, esasperati, a volte aspri, che solo la terra sarda sa produrre.
Un legame molto stretto, quindi, quello tra Midollini e la Sardegna, e sono centinaia le opere che l’artista ha dedicato all’isola e alla sua gente.

Ritratto di Gavino Ledda

Un rapporto molto stretto che portò Midollini a un legame di amicizia fortissimo con lo scrittore Gavino Ledda, sfociato nella realizzazione del volume “Le canne amiche del mare”, pubblicato dall’Editore Manzuoli di Firenze nel 1978.
Il questo libro Ledda racconta una storia sulle launeddas, i flauti di canne utilizzati nelle musiche popolari sarde, mentre Midollini “presta” le sue opere di ispirazione sarda a corredare il volume.
Una felice simbiosi suggellata anche da una foto che ritrae, appunto, Midollini, Ledda e tziu Juanne, il suonatore di launeddas.
La mostra di Midollini, promossa dal Quartiere 1 di Firenze, si terrà nella Sala delle Vetrate (ex Murate) in Piazza Madonna della Neve a Firenze. L’inaugurazione è fissata per le ore 17.30 di Venerdì 28 maggio e rimarrà aperta sino all’11 giugno 2010.
Un’occasione per scoprire un artista di spicco nel panorama artistico fiorentino e per poter ammirare una rassegna di opere dalla forte e incisiva potenza pittorica.