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Antonio Piu fotografo

Antonio Piu fotografo

L’ACSIT, Associazione Culturale Sardi in Toscana di Firenze, e il Circolo “Peppino Mereu” di Siena, tra gennaio e febbraio, hanno reso omaggio al genio  creativo del fotografo Antonio Piu con l’esposizione di una rassegna di ritratti da lui realizzati negli anni ‘60

La mostra è stata inaugurata domenica 19 Gennaio a Firenze e domenica 9 Febbraio a Siena. A Firenze la mostra si è tenuta presso la sede ACSIT in Piazza Santa Croce, 19  ed è andata avanti sino a domenica 2 febbraio. A Siena, invece, le foto sono rimaste esposte esposte da domenica 9  Febbraio a Domenica 23 Febbraio presso il Circolo “Peppino Mereu”  in Via Sant’Agata 24

Antonio Piu (1921-2005), nato e vissuto sempre a Orani (NU), era considerato un personaggio al limite dell’eccentricità, uno di quei “geni” un po’ fuori dalla norma che spesso si ritrovano nei piccoli centri della Sardegna e non solo: accanto alle attività “ufficiali” svolte per oltre quarant’anni come fotografo, orologiaio e calzolaio, Piu coltivava, infatti, molteplici interessi che andavano dalla chimica all’astronomia.

In campo fotografico la sua attività era quella tipica del classico fotografo di paese, “ingaggiato” all’occasione per matrimoni, battesimi, compleanni, ecc., e molta della sua produzione era destinata agli scatti per fototessere da utilizzare per documenti vari.

Come fotografo era molto “naif”: nelle sue foto gli accorgimenti tecnici erano praticamente inesistenti. Non utilizzava, ad esempio, paraventi o fondali dipinti e lo sfondo per le fototessere era quasi sempre la finestra del suo fatiscente laboratorio di ciabattino, dove un grosso armadio fungeva da camera oscura per lo sviluppo dei negativi e dove le cianfrusaglie accatastate e le ragnatele la facevano da padrona.

Alcuni anni fa, in maniera del tutto fortunosa, è stato recuperato un archivio di oltre 1300 negativi, la maggioranza dei quali sicuramente attribuibili a Antonio Piu, soprattutto per quanto riguarda i ritratti per fototessera. Si tratta di foto che coprono un periodo di circa cinquant’anni, dai primi anni ’40 sino alla fine degli anni ’80. L’intero “corpus” fotografico, valutato nel complesso dei suoi 1300 scatti, ha la particolarità di presentare visivamente la testimonianza del vissuto di un paese, Orani, nel suo complesso e per un vasto lasso di tempo e, anche se molti negativi risultano purtroppo irrimediabilmente rovinati, sono in grado tuttavia di offrire uno spaccato di vita oranese, con immagini di feste, cerimonie, ritratti, ecc. dalle quali emergono persone, eventi privati e pubblici che messi insieme descrivono quello spirito di comunità che ha sempre segnato i ritmi di vita dei paesi in Sardegna.

Da questo materiale sono state selezionate 24 scatti per fototessera di Antonio Piu, databili al 1966.
Sono foto che ritraggano bambini di 10 o 11 anni, e quindi nati nel 1955 e nel 1956, e  probabilmente furono scattate in occasione della preparazione dei documenti per l’iscrizione alla prima media.

Si tratta di un gruppo di bambini che nella comunità di Orani ha vissuto, è cresciuto e si è affermato in diversi campi: le foto scelte per la mostra sono in grado, pertanto, di offrire sia una testimonianza per immagini sull’attività di Piu sia quella di una generazione di paese. I ventiquattro ritratti esposti rappresentano, quindi, un piccolo e limitato spaccato della comunità di

Orani e costituiscono, indubbiamente, un primo nucleo destinato ad allargarsi in una mostra ben più ampia e rappresentativa dei lavori di Antonio Piu.

Come detto, però, Piu oltre a svolgere una multiforme attività, era anche un curioso della natura con una grande passione, la mineralogia. Girava per le campagne in cerca di minerali da analizzare e classificare. Tale passione lo ha portato a lasciare un segno indelebile per la comunità di Orani. Alla fine degli anni ’80, infatti, Antonio Piu individuò un giacimento di feldspati, minerali di primaria importanza per la produzione della ceramica di qualità. Segnalò la sua scoperta a un’azienda di Sassuolo e, per le informazioni fornite, venne ricompensato con un vitalizio: Antonio Piu smise di fare il fotografo, l’orologiaio e il ciabattino e, per il resto dei suoi giorni, visse di rendita, mentre a Orani venne avviata un’attività estrattiva che, ancora oggi, dà lavoro a diverse persone

 

Le foto (dall’alto):
Antonio Piu con la sua ‘600;
Inaugurazione della mostra a Firenze;
Inaugurazione della mostra a Siena;
Vecchio oranese in costume;
Bambino a cavallo in un vicolo di Orani;
Ritratto di Angelino Mereu;
Fuori dal Bar a Orani;
Ballo sardo a Oniferi;
Paginone su La Nuova Sardegna.

 

Il mondo visto da una sedia

1926: Babbo a due anni. Vestito da fraticello, con tanto di cordone alla cintola, per un voto a S.Francesco. Sta in piedi su una sedia e, da un esame ingrandito della foto, si notano gli scarponcini chiodati (cusinzeddos) di produzione artigianale. Si intuisce anche un fondale “rurale”, visto che in un angolo si intravvedono tre galline intente a becchettare.

1948: zia Elena ha tre anni. Vestita da suora, credo per voto a Santa Rita, sembra che tenga in mano un giocattolino. Calzettoni di lana grezza, probabilmente realizzati da nonna ai ferri, e anche in questo caso scarponcini sicuramente frutto del lavoro di qualche calzolaio di paese. Dall’ambiente “rurale” sono sparite le galline ma si intravvede una porta, con il vecchio sistema di chiusura a “cricchetta”, che per stare aperta necessita di un bel blocco di mattone (una cothza).

1950: zio Mario ha un anno. La sedia è più o meno la stessa e continua a svolgere la sua funzione di luogo prescelto per far vedere il mondo dall’alto ai bambini Mereu. I tempi cambiano e ai piedi compaiono un paio di sandaletti “con gli occhi”, acquistati nel negozio e non dovuti alla mano di qualche artigiano. Lo zio ha dismesso gli abiti religiosi e indossa un pagliaccetto con pettorina: forse nel 1950 iniziavano a usare i vaccini che, in quanto a preservare i bambini, si dimostravano più efficaci dei voti dedicati ai santi.

Quando le foto ti ritrovano

Grazie a una delle mie grandi passioni, la collezione di antiche cartoline della Sardegna, appena posso giro per mercatini alla ricerca di rarità per arricchire la mia raccolta. Un’appuntamento fisso, tutti i mesi, è il mercatino dell’antiquariato che si tiene a Firenze presso i giardini della Fortezza da Basso. Alcuni anni fa, mentre rovistavo in un banco particolarmente fornito di cartoline e vecchie foto, mi ritrovai per le mani una foto che ritraeva un giovane seduto, in posa, accanto a un vecchio apparecchio radiofonico. Non ebbi dubbi e lo riconobbi subito: era mio suocero, Giuseppe Campanini, nato nel 1906 e morto nel 1981, uno dei primi radiotecnici in Italia.
SUOCERO 029Feci presente la “scoperta” al titolare del banco che, incredulo, sfilò la foto dalla sua custodia: nel retro c’era la firma autografa e una dedica ad un amico farmacista di Sarzana che ne confermavano l’identità. La foto era datata 1927 e il commerciante la vendeva per 25 euro vista la rarità dell’apparecchio radiofonico ritratto accanto a mio suocero. Volevo pagare e acquistare la foto, sconosciuta a tutta la famiglia, per riportarla nell’alveo familiare, ma il commerciante rifiutò i quattrini dicendomi: “No. Te la regalo perchè non sei tu che hai trovato la foto, ma la foto che ha ritrovato te”. Quella foto, ora, fa bella mostra di sè, incorniciata, su un ripiano della mia libreria.

marina 197Oggi, 20 novembre 2014, dopo una decina d’anni, la storia si ripete. Con mia moglie Enrica capitiamo per caso al Mercatino delle Pulci di Firenze, in Piazza dei Ciompi. Mi metto a rovistare in un banco tra vecchie cartoline e vecchie foto e, all’improvviso sobbalzo: “questa è mia cugina!”. Giro la foto e nel retro ho la conferma: c’è l’invio con dedica di mia zia Mattiuccia e di mio zio Francesco che, nel 1964, da Lione in Francia inviavano la foto di mia cugina Marina a qualche loro conoscente non precisato nella dedica.

Confesso che sono rimasto sorpreso ed emozionato nel rivedere Marina da piccola con i suoi bei riccioli biondi e nel ritrovare un pezzo della mia famiglia su una bancarella. E, anche se mi rimarrà sempre la curiosità di scoprire come ha fatto questa foto a finire su un banco del Mercatino delle Pulci di Firenze, devo ammettere che per la seconda volta mi succede di essere ritrovato da una foto.

J.B.Barla: un viaggiatore in Sardegna 170 anni fa

Quando nel 1841 Jean Baptiste Barla (1817 – 1896) giunse in Sardegna, aveva 24 anni. Arrivò nell’isola invitato dalla sorella Luigia, moglie del capitano dei Granatieri di Piemonte Bruno Boglione, allora di stanza a Cagliari.
170 anni fa, dunque, un giovane nizzardo si aggirava per la Sardegna, armato di taccuini e pennelli, pronto a cogliere aspetti e dettagli della vita di tutti i giorni nell’isola, ma anche pronto a coltivare la sua passione per le scienze naturali e la botanica. Jean Baptiste Barla, infatti, passato alla storia come naturalista, botanico e soprattutto micologo, diede notevole impulso alle scienze botaniche e la sua opera fu fondamentale per l’istituzione del Museo di Scienze Naturali di Nizza, sua città natale.
Di lui rimangono tantissime osservazioni botaniche e numerose pubblicazioni, sempre corredate da splendide tavole a colori, il più delle volte realizzate da lui stesso. Come risulta dalle carte del Museo di Nizza, molte di queste annotazioni riguardano anche vegetali raccolti durante la sua escursione sarda.

Barla, in occasione del suo viaggio in Sardegna, tra l’altro, ebbe modo di mettere a frutto le sue notevoli capacità artistiche, e di quel soggiorno, infatti, rimangono alcuni album di disegni relativi a costumi e vedute dell’isola.
Due di questi album, di proprietà di un collezionista, per complessive 119 illustrazioni, sono stati esposti nell’aprile 2010 a Cagliari.
Un terzo album, di mia proprietà, contiene circa 80 tra acquerelli e disegni.

Si tratta in massima parte di costumi isolani, ma vi sono anche vedute di Cagliari, di Alghero, di Villanova Monteleone, di Thiesi, alcune scene di vita (caccia al cinghiale, veglia funebre, ecc.) e alcune tavole dedicate ai nuraghi, con descrizioni storiche e archeologiche.

Dai dipinti di Barla emerge una visione della Sardegna quasi da “reporter”, con una attenzione profonda all’abbigliamento, agli usi e ai costumi locali. Sono tavole sempre molto particolareggiate, tipiche di chi, abituato a descrivere i dettagli minimi delle piante e dei fiori, applica la stessa tecnicha alle figure di persone e ai paesaggi.

Una documentazione inedita e importante, che permette di dare corpo e immagini a tutta la letteratura di viaggio dell’800 in Sardegna, a partire dal Viaggio di AlbertoLa Marmora, splendido nelle descrizioni, ma del tutto carente per la parte iconografica.

Olivia ha scritto un racconto

Il ritratto di Olivia, un acquerello del 1999, ritrae una bambina biondina che gioca e sguazza in una piscina gonfiabile. Olivia è cresciuta, e , nel 2011, oggi che finisce la scuola, con gli altri ragazzi di terza media partecipa al concorso scolastico “Pensieri di sogno”.
Devono scrivere un racconto e liberare la loro fantasia da adolescenti, pensando e sognando, come è giusto che sia alla loro età.
Olivia ha scritto un racconto e ha vinto. E’ stata premiata per come l’ha scritto e per quello che ha raccontato. Un racconto bello: da leggere!. E per me, che ho la miniera nel mio DNA, il racconto ha una valenza ancora più forte, con richiami che vanno ben oltre i sogni e riconducono a una realtà vissuta.
E allora, che dire?
Grazie Olivia per il tuo racconto; e grazie anche perché, se una ragazza di 13 anni pensa e scrive queste cose, abbiamo la speranza che il futuro ci riservi ancora qualcosa di buono.

 Bianca come il carbone

 di Olivia Tilli

 Solean aveva il sole nel nome e nel destino.
Solean, un ragazzo troppo sognatore per un lavoro troppo concreto. Lui sapeva di non essere adatto: si affaticava spesso, non aveva mai voglia e, in quei luoghi, si sentiva come un uccellino in gabbia. Solean aveva voglia di volare, voleva guardare lontano e vedere più di quanto facessero i suoi compagni.
Pur sapendo che quella non era la sua vocazione, ogni giorno era al suo posto, concentrato, con il piccone in mano. Il 22 ottobre Solean era pronto per scendere, come ogni mattina, ma quel giorno c’era qualcosa di strano nell’aria. Sol si aspettava qualcosa ma tutto continuò normalmente.
I suoi compagni del settore B erano sempre gli stessi: David, che non sapeva né leggere né scrivere ma aveva una positività innata, Richard, con gli occhi di ghiaccio ma il cuore che si scioglieva ad ogni  triste sguardo di Ron, il bambino. Ron era l’ultimo membro del settore B e il più piccolo della squadra. Ogni giorno, da quando aveva quattordici anni, si avviava per le strade di Green River e si recava davanti alla galleria. Ogni giorno, prima di calarsi nel pozzo, piangeva. Nessuno sapeva il perché ma ogni mattina si ripeteva sempre la stessa mesta scena.
Sol e i tre compagni scesero nella galleria; arrivati al settore B, le chiacchiere si spensero.
Il lavoro era cominciato. Il dolce brusio della pompa scandiva il ritmo dei picconi.
Solean era più lento dei compagni ma il suo tocco era preciso e forte, talmente potente che poteva far crollare tutta la miniera. Alle due del pomeriggio i minatori si prepararono per il pranzo.
Richard impugnò il sacchettino di carta e risalì la galleria per uscire, Ron lo seguiva a ruota con il pane protetto dalla carta legata con un filo tozzo e sciupato. Rimanevano soltanto Sol e David ma quest’ultimo aveva l’abitudine di mangiare camminando perciò in un attimo Solean restò solo.       
Il minatore, prima di aprire il fagotto che stringeva in mano, intonò una preghiera rozza ma talmente sentita che le parole non importavano. Afferrò il pane e se lo portò alla bocca ma, prima di assaggiarne un pezzo, si pietrificò.
Davanti a lui era comparso qualcosa.
Prima non c’era che un po’ di pietra nera e qualche grammo di terra, adesso si era materializzata un’immagine. Solean chiuse gli occhi e poi li riaprì, più volte ripeté il medesimo esercizio ma infine capì, non era un sogno. Davanti a lui stava una donna, immobile, come pietrificata.
Poteva vedere i suoi occhi infossati, la sua bocca dalle labbra screpolate e la sua fronte bassa e corrugata. Stava pensando, forse, oppure era confusa,  non capiva perché Solean la stesse guardando.
I pensieri si rincorrevano nella mente del ragazzo ma nessuna risposta gli pareva soddisfacente.
Allora si alzò e, cautamente, si avvicinò a quella figura. Questa non si muoveva, non sbatteva le palpebre, non respirava. “Buongiorno, signorina.” esclamò togliendosi il cappello con un inchino. “Posso domandare il suo nome?” La donna non rispondeva. Solean ci pensò un attimo.
“Si chiama forse Emily? Angela? Agnese?” La statua non si mosse.
Sol pensò: “Forse non è stata battezzata…”
Alzò la testa e parlò: “Se non è mai stata battezzata posso farlo io.” Prese la borraccia e bagnò la pietra nera davanti a se: “Ti battezzo col nome di…” Certo che la donna nera non avrebbe parlato, il ragazzo terminò la frase a suo piacimento: “Bianca!”
La mezz’ora per il pranzo finì e gli altri uomini scesero nel pozzo. Trovarono Sol  ancora immobile ad osservare la sua donna. Richard prese in mano il piccone ma il ragazzo urlò: “Fermo! Non fare del male a Bianca!” I compagni erano allibiti.
“È solo un pezzo di pietra!” affermò Ron osservando la parete.
Solean non parlò. Come aveva fatto a scambiare una roccia per una donna? Era forse impazzito? Eppure lui continuava a vederla quella donna, continuava a sfiorare i suoi lineamenti. Erano dolci e caldi, non erano fatti di quella pietra umida che si trova in miniera.
I compagni erano sempre più confusi. Sol continuava a guardare con occhi sognanti quella parete rocciosa. David lo spinse indietro e lo schiaffeggiò dicendo: “Amico, hai preso un abbaglio. Qui non c’è niente!”
Richard ricominciò a picconare. Sol a ogni colpo gridava: “Bianca!” Ma intanto Bianca scompariva nella polvere.
Sol socchiuse gli occhi e, pieno di amarezza, strinse i pugni e lasciò per sempre quella cupa miniera piena di trappole e trabocchetti.
Il ragazzo scese in paese e poi corse come un pazzo verso una collina isolata dal mondo. Lì si fermò e guardò l’orizzonte. Aveva corso a lungo fino al tramonto  e ora pensava a Bianca, la donna di roccia, che solo lui aveva visto. Non sarebbe più tornato in quella miniera. Troppo stretta e chiusa per i suoi pensieri liberi. Qualcuno si chiederà: “Perché proprio Bianca per  una donna di carbone?” Perché non era il colore quello che contava per Sol. Bianca come bianca era la luce che lo aveva abbagliato quel giorno. Bianca e luminosa come la bellezza della donna che solo lui aveva avuto il privilegio di vedere. E intanto il sole calava e Solean sognava di incontrare di nuovo la sua amata donna di pietra.   

Il paese era muto nell’ombra della notte
ma Solean piangeva forte, sempre più forte
e poi guardava nel nero del cielo
e riscopriva Bianca e il suo buio sorriso
E ora stava lì disteso nell’immenso
ad aspettare Bianca e con lei la luce.
E con la luce il sole. 

Perché Solean aveva il sole, nel nome e nel destino.

La Sardegna di Leo Neppi Modona

Nel 1971 la Editrice Sarda Fossataro di Cagliari pubblicò il volume “Viaggiatori in Sardegna”, curato da Leo Neppi Modona che, nel libro, aveva raccolto e ampliato una serie di suoi interventi trasmessi poco tempo prima dal Gazzettino Sardo. Neppi Modona, che aveva ricoperto l’incarico di docente di lingua francese presso l’Università di Cagliari, alla Sardegna era rimasto molto legato, tanto che quando morì nel1986, a soli 54 anni (era nato a Firenze nel 1932), la sua ricchissima biblioteca (oltre 8000 volumi) venne lasciata al comune di Cagliari, con la precisa indicazione di destinarla alla frazione di Pirri. 
Recentemente l’editore Aska di Firenze (2010) ha pubblicato il volume “Barbari nel secolo XX. Cronaca familiare (settembre 1938 – febbraio 1944)”, a cura di Caterina Del Vivo e Lionella Neppi Modona Viterbo, che raccoglie il diario, giorno per giorno, tenuto da Leo Neppi Modona dove, con occhi da bambino, ma con proprietà di linguaggio da adulto, descrive le atrocità e le persecuzioni a cui in quegli anni sono sottoposti gli ebrei a seguito dell’introduzione delle leggi razziali.

Il volume di Fossataro del 1971 parla della Sardegna così come l’hanno vista e raccontata decine di illustri visitatori, da Lawrence a Balzac, dai fratelli Alinari al padre gesuita Bresciani, ecc. Ma da quel libro mi piace estrarre la paginetta di prefazione scritta da Leo Neppi Modona che, nelle sue conclusioni, nonostante siano passati quarant’anni, appare di scottante attualità.

 ALLA SARDEGNA

La Sardegna è come un diamante dalle mille sfaccettature: ogni viaggiatore è venuto e ne ha osservato qualche aspetto, ha posto il diamante contro luce e ha preteso di vederne in breve tempo le virtù e i difetti. Ma ora è venuto il momento, ed anzi è il momento, perché domani sarà troppo tardi, che i Sardi prendano coscienza del valore della loro isola in ogni suo aspetto. Qui la vita è a una svolta: siamo ancora in grado di salvare questa meravigliosa isola. Lungo le nostre coste corrono i fili spinati, ma domani potrebbe correre il cemento armato. Noi forse siamo fortunati, perché a nessuno verrà in mente di costruire un ponte per unirci al continente, ma dobbiamo renderci conto di questa fortuna. Il ponte non c’è perché la Sardegna è un’isola, e deve restare un’isola, con qualcosa di diverso dal resto del mondo. Questo è appunto il vantaggio delle isole, che possono prender quel che vogliono dal continente e lasciare il resto, senza bisogno di elevare frontiere, purché sappiano difendere la loro peculiare natura. Se agiremo in questo senso, avremo ancora e sempre viaggiatori in Sardegna che sapranno apprezzarci, che troveranno presso di noi qualcosa di nuovo e di gustoso, come un frutto selvatico, se agiremo in questo senso, garantiremo a noi e ai nostri figli un angolo di pace e di severa tranquillità, se invece continueremo a dormire o a subire, saremo sempre di più un popolo colonizzato e cammineremo curvi e pazienti come i muli, per portare denaro fuori dall’isola a chi ci saprà sfruttare.

Leo Neppi Modona

Ivaldo e le rime sarde

Bello il post di Bastiana su Antoni Cuccu (http://cartebianche.blogspot.com/2011/04/antoni-e-diagne_08.html).
Mi ha fatto tornare alla mente quei libricini sulle gare poetiche che circolavano per casa e che mio padre leggeva (e imparava) avidamente. Leggeva e memorizzava, e quando qualche ottava lo colpiva particolarmente, la leggeva a voce alta coinvolgendoci tutti nelle rime estemporanee del poeta di turno. Alcuni di questi libricini mi hanno seguito a Firenze e due mi sono stati regalati, un paio d’anni fa, da Ivaldo Baglioni, storico bibliotecario della Nazionale di Firenze.

Ivaldo Baglioni

Ivaldo, dall’alto dei suoi 88 anni, è una leggenda vivente. Fu lui che durante l’alluvione del 1966 fu nominato direttore del personale e a lui si deve, in quell’occasione, il coordinamento delle attività e il salvataggio di tantissimi tesori della Nazionale.
Ho conosciuto Ivaldo grazie all’amicizia con le figlie Lucia e Laura. Nonostante il carattere alquanto burbero, la comune passione per i libri antichi ci ha vicendevolmente resi simpatici.
E così, ogni tanto, mi arriva un “segnale”:  qualche libro che ha a che fare con la Sardegna, come, appunto, i due opuscoletti di altrettante gare poetiche che Ivaldo ha scovato in qualcuno di quegli angoli che Firenze riserva ancora ai bibliofili.
E mi piace pensare che questi due pezzetti di Sardegna siano partiti dalla valigia di Antoni Cuccu, per transitare nelle mani di Ivaldo Baglioni e approdare, poi, negli scaffali di casa mia, per rinnovare quella passione per le antiche rime isolane da leggere in compagnia.

Eligio Pintore, pittore del Risorgimento

Nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, a cura della rivista “Il Convegno” di Cagliari, venne pubblicato un volume, “Sardegna e Risorgimento”, dove venivano ricordate alcune figure di personaggi sardi che avevano contribuito ai fatti risorgimentali e all’Unità d’Italia.
Scritti di Pietro Leo, Agostino Cerioni, F.Loddo-Canepa, Nicola Valle, e altri, ricordavano le figure di Gaeteno Lai, Mario De Candia, Goffredo Mameli, ecc.
Pietro Leo, nel capitolo da lui curato (“La Sardegna e l’Unità d’Italia”), tra gli altri personaggi, ricorda il pittore Eligio Pintore, nato a Bonorva nel 1831 e morto a Genova nel 1914, di cui aveva già tracciato figura e opera in uno scritto del 1947 (Pietro Leo, “Un pittore sardo del Risorgimento Eligio Pintore”, Sassari, Tip. Gallizzi, 1947).
Pintore, lasciò la Sardegna, probabilmente in quanto richiamato militare. Tant’è vero che nel 1856 faceva parte del contingente piemontese inviato da Cavour in Crimea. In quell’occasione Pintore assunse quasi una funzione da reporter, realizzando una serie di acquarelli (oltre 70) con scene riprese dal vero che rendono l’atmosfera della vita quotidiana nel campo militare. Questi acquerelli sono conservati nel Museo del Risorgimento di Genova, città dove Pintore visse e lavoro.
Nel volume “Sardegna e Risorgimento” sono riprodotti due acquerelli di Pintore, tra cui un ritratto di Garibaldi, probabilmente realizzati durante le campagne militari del 1860/1861 a cui l’artista partecipò.
Di Eligio Pintore rimangono poche opere e scarse notizie sulla sua vita (oltre allo scritto di Pietro Leo, il bel volume della collana Storia dell’Arte in Sardegna, “Pittura e scultura dell’800” di Maria Grazia Scano).
Sappiamo che a Genova, tra il 1868 e il 1870, collaborò come vignettista e caricaturista al giornale “Lo Specchio” e che nel 1885 illustrò un testo scolastico (L’aritmetica di Ninì, di Antonio Pastore). Sempre a Genova aveva uno studio frequentato da allievi (tra cui il pittore e illustratore Giovanni Ardy), e, nel 1892, in occasioni delle celebrazioni italo-americane per la scoperta dell’America, disegnò una medaglia commemorativa destinata ai visitatori dell’esposizione (realizzata dall’ incisore A. Bocelli di Milano) e i costumi del corteo storico.
I rapporti di Pintore con la Sardegna furono molto scarsi. Dal periodico popolare “La stella di Sardegna”, stampato a Sassari nel dicembre 1875, abbiamo notizia che realizzò il ritratto della suora di carità Lucia Mannu Ledà  e che “col semplice sussidio di una fotografia” realizzò “un ritratto pieno di vita e di anima…. Freschezza di colorito, morbidezza di tinte, purezza di contorno, sono i pregi che vanta questo bel ritratto del Pintore”. Sappiamo, inoltre, che concorse con scarso successo al bando per la decorazione della Sala delle adunanze del Consiglio Provinciale di Sassari, e che intervenne con alcune opere all’Esposizione Artistica Sarda a Sassari nel 1896.

Di Eligio Pintore posseggo un acquerello che, a quanto mi risulta, è l’unica opera di soggetto sardo di cui si abbia traccia. L’acquerello (cm 26 x 16) rappresenta un paesaggio con nuraghe e vecchio in costume, in primo piano, sul ciglio della strada. Sullo sfondo montagne con cime altissime che, certamente, non fanno parte del paesaggio tipico sardo, ma che rimandano a quello stile “neogotico” che a fine ‘800 imperversava nelle arti figurative e in letteratura. Un acquerello che, come ebbe a scrivere Orlando Grosso nel 1912 a proposito dei lavori di Pintore, fa rivivere una “serena comprensione della natura e del bello”.

A proposito di scuola e Sardegna

Nel 1957 l’Editore Laterza di Bari pubblicò il volume “Diario di una maestrina” di Maria Giacobbe.
Il diario raccoglieva gli appunti dell’allora giovanissima scrittrice nuorese che raccontava la sua esperienza di maestra elementare nei paesi della Barbagia.
La giovane maestra racconta di come ha cercato costantemente di aiutare quella gente a risolvere i suoi problemi, operando attraverso la scuola e in condizioni quasi sempre disperate.
Una scuola disastrata che rifletteva lo stato delle famiglie, dei paesi e dell’isola intera.
Il libro ebbe grandissimo successo: vinse il “Premio Viareggio Opera prima” e fu tradotto in molte lingue.

Prima edizione di "Diario di una maestrina" con la sopracoperta illustrata da Mimmo Castellano

La prima edizione di “Diario di una maestrina” era arricchita dalla prefazione di Umberto Zanotti-Bianco, letterato, filantropo e archeologo (1889 – 1963), che si occupò in vario modo del Meridione d’Italia, promosse diverse iniziative attraverso la fondazione di pubblicazioni specializzate, fu presidente della Croce Rossa Italiana e, dal 1953, Senatore a vita.
Nella prefazione Zanotti-Bianco ricorda l’azione promossa con l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia per fondare sviluppare asili, scuole, biblioteche, cooperative, ecc., negli angoli più remoti del Meridione e della Sardegna. Un’azione che portò alla fondazione di migliaia di scuole ma che determinò anche lo scioglimento dell’Associazione, nel 1928, in quanto invisa al regime fascista.

In questi giorni di attacco serrato alla scuola pubblica italiana, per due motivi mi piace riportare integralmente la prefazione di Zanotti-Bianco dove ricorda la sua esperienza in Sardegna. Prima di tutto per ricordare, allora come oggi, l’opera indefessa di migliai di insegnanti che quotidianamente svolgono un compito educativo, fondamentale per la crescita culturale e civile del Paese; in secondo luogo per ricordare (e per non dimenticare) che la scuola e l’insegnamento sono tra quelle attività che tutti i regimi, in ogni epoca e luogo, inseriscono tra le priorità da controllare, per intruppare e sottomettere i popoli.

Umberto Zanotti-Bianco impegnato in uno scavo archeologico

Prefazione a “Diario di una maestrina”
prima edizione, Bari, Laterza, 1957

Nell’autunno del 1926 avevo iniziato in Sardegna una vasta inchiesta sulle condizioni dell’ infanzia nell’isola, simile a quella da me promossa in Basilicata e apparsa nella primavera di quell’anno.

Le nostre scuole per la lotta contro l’analfabetismo erano in quell’anno in pieno progresso; ma già si accentuavano le pressioni delle autorità governative per imporci il licenziamento di quei maestri, spesso i più degni, che non avevano voluto iscriversi alle organizzazioni del partito dominante.
Poco prima di partire per il mio viaggio, in seno al Consiglio della nostra Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno, avevo chiesto che di fronte a questi rinnovati soprusi politici, l’Associazione rinunciasse, per un dovere morale, al suo mandato, piuttosto che vedere sacrificati ingiustamente i suoi maestri. Non potevamo esaurirci in una sterile lotta contro prefetture e sindacati, occupati come eravamo a sorvegliare e migliorare le nostre scuole e i nostri maestri e tutte le nostre opere.
La decisione, sospesa per l’intervento di Giovanni Gentile che promise d’interessarsi personalmente del grave problema, venne posta in atto nel 1928: e fu la rinuncia a ben 8.262 scuole in Sardegna, Sicilia, Basilicata e Calabria.
Più volte traversando le lande arse, i boschi di sughero dai tronchi scuoiati della Barbagia, o avvicinandomi a quei solitari abitati che nel Sulcis sono nominati furiadroxius e dove in una misera scoletta una paziente maestrina era intenta ad aprire — come poeticamente si era espresso un vecchio pastore “s’anima lebia de sos nostros piseddos”, l’anima lieve dei nostri bimbi, io mi domandavo quale interesse potesse mai spingere la dittatura a stendere i suoi tentacoli fino a quei miseri aggregati umani fuori della politica, fuori quasi della stessa vita!
E quando per quelle solitudini, ove il silenzio non era interrotto se non da torme di pernici spaventate e da qualche cavaliere dal costume bianco rosso e nero, con la sua taciturna donna in groppa al cavallo, o a sera tardi – quando le selve di lentischi diventano nere e il loro aroma più amaro – dal trillo nostalgico di qualche grillo solitario, mi chiedevo: quale tra i nostri migliori maestri, o tra le nostre maestre più vicine all’anima dei bimbi, saprà mai scrivere la storia della sua dura vita, sì ricca di abnegazione e di stenti in questi ambienti chiusi, dal dialetto sì difficile e dove il suo sacrificio è per soprammercato amareggiato dalle imposizioni della dittatura?
Più volte mi ponevo questa domanda nei miei giri solitari che s’ iniziavano all’alba e finivano sotto le stelle.
Forse la maestra della piccola frazione di Strisaili che scriveva: “Ho fatto lezione tutti i giorni, non esclusi i festivi: non ho badato all’orario. Ho sofferto per il freddo, per la mancanza delle cose più necessarie alla vita, per la solitudine in cui mi sono trovata, non potendo corrispondere regolarmente con le persone più care perché nella frazione non c’ è servizio postale e le lettere si danno a lunghi intervalli, quando si ha occasione propizia di mandarla a ritirare a Villagrande”.
Ma essa era già stanca dopo il suo primo esperimento se concludeva così tristemente: “Dovrò tornare in questa desolata frazione? Vi ho troppo sofferto per tutto, specialmente per il pessimo alloggio… Per conto mio vi rinuncio definitivamente”.
Forse la maestrina della scoletta d’un colle della Gallura in vista del mare? Le sue parole estatiche sulla bellezza del panorama che le alleviava gli stenti della non facile vita mi avevano commosso: ma natura dolce, sognatrice, era troppo passiva innanzi agli ostacoli: non era fatta per affrontare le difficoltà, non per la lotta. “I miei alunni – mi scriveva – per quanto io faccia, non mi obbediscono: e spesso non scendono neppure dalle loro tanche per restare a sorvegliare e a mungere le pecore”.
Una sera che percorrevo le pendici del Gennargentti, un forte vento mi aveva carpito i miei pensieri, questo mio desiderio e penetrando con violenza nella Valle dell’Oliena li aveva recati, presso una culla, a Nuoro.
Parla, parla, il vento… –  dirà il vecchio di Orgosolo alla maestrina – e nessuno lo ascolta”.
Parlava, parlava, il vento, ma la bimba lo ascoltava attonita.
Passarono gli anni e quando, giovinetta, lasciò il liceo, quella voce tornò a parlare ed ella si fece maestra.
E dopo i primi esperimenti che l’avvicinarono alla vita e alle sofferenze della sua gente, e dopo tre anni di scuola ad Orgosolo, di nuovo quel vento le parlò al cuore ed ella si pose a scrivere la storia della sua viva e ricca giovinezza.
Or è una settimana questa maestrina – che aveva un giorno sentito parlare del viaggiatore che passava di paese in paese per una inchiesta troncata dalla dittatura — mi ha scritto chiedendomi una prefazione al suo Diario.
Esso non ne ha bisogno, tanto è ricco dì serietà, dì umanità e di poesia.
Dirò soltanto che queste sono le pagine che ho desiderato venissero scritte, quando scendevo dal Gennargentu.
La maestrina sarda insegnando ad Orgosolo ha imparato, giorno per giorno, e ha descritto con bella efficacia la miseria di quel paese, i suoi bambini denutriti, le sue donne dignitose, i suoi uomini perseguitati, il suo triste attaccamento a forme di vita superate, la sua sfiducia, non sempre immotivata, nella giustizia e nella legge .
Gli italiani leggano queste pagine: sentiranno quanta nuda indigenza, quanto dolore silenzioso, misto a ondate di poesia e di coraggio, si nascondono tuttora in quest’ isola sì ricca di fascino, che ha comune con il Mezzogiorno tante piaghe secolari e tante secolari speranze.

Roma, 18 aprile 1957
Umberto Zanotti-Bianco

1891-2011: 120 anni fa nasceva Antonio Gramsci

Carissima mamma,
Sto per partire per Roma. Oramai è certo. Questa lettera mi è stata data appunto per annunziarti il trasloco. Perciò scrivimi a Roma d’ora innanzi e finché io non ti abbia avvertito di un altro trasloco.
Ieri ho ricevuto un’assicurata di Carlo del maggio. Mi scrive che mi manderà la tua fotografia: sarò molto contento. A quest’ora ti deve essere giunta la fotografia di Delio che ti ho spedito una decina di giorni fa, raccomandata. Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.
Ti abbraccio teneramente. Nino
Ti scriverà subito da Roma. Di’ a Carlo che stia allegro e che lo ringrazio infinitamente. Baci a tutti.

Questo scriveva Antonio Gramsci alla madre il 10 maggio 1928 quando era in procinto di essere trasferito dal carcere giudiziario di Milano destinazione Roma dove, assieme agli altri dirigenti del P.C.I., dal 28 maggio al 4 giugno, fu processato davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Imputato e riconosciuto colpevole dei reati di cospirazione e di incitamento all’odio di classe, di incitamento alla guerra civile, all’insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo, Gramsci, il 4 giugno 1928, venne condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Assegnato dapprima al penitenziario di Portolongone, dopo una visita medica speciale fu destinato alla Casa penale di Turi per condannati sofferenti di mali fisici e psichici, e lasciò Roma l’8 luglio 1928 in « traduzione ordinaria».
Gramsci nato il 22 gennaio del 1891, anche a seguito dei patimenti subiti nella sua lunga prigionia, morì a 46 anni in clinica a Roma il 27 aprile 1937 .

 La lettera è tratta da “Lettere dal carcere”, pubblicate da Einaudi nella collana “Nuova Universale” nel 1965, a cura di Sergio Caprioglio e Elsa Fubini