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La Sardegna di Carlo Levi

Spinto dalla sua personale ricerca e scoperta del Sud, tra il 1951 e il 1952 Carlo Levi (1902-1975) compì un viaggio in Calabria, da Melissa alla Sila, accompagnato da Rocco Scotellaro, visitò la Sicilia e, per la prima volta, approdò in Sardegna.
La cronaca di questo primo viaggio in Sardegna venne pubblicata in due puntate su L’Illustrazione Italiana, nei numeri 6 e 7 di giugno e luglio del 1952, accompagnata da numerose foto scattate da Federico Patellani e dallo stesso Levi.
Nel suo viaggiare, Levi trova una Sardegna caratterizzata da differenti modi di vita che convivono, uno vicino all’altro: “Una civiltà di pastori si trasforma in parte in una civiltà contadina, tra lotte e contrasti continui, e sorgono centri operai, come isole in un deserto, e se ne sente il peso e l’influenza sul costume”.

Carlo Levi, “Autoritratto”, 1945, olio su tela, cm 42x34, Roma, Fondazione Carlo Levi

Cagliari è ancora profondamente ferita dai bombardamenti della guerra e Levi rimane colpito dalla moltitudine di persone che popolano le “grotte” di S.Avendrace e i cunicoli del teatro romano; centinai di uomini, donne e bambini “…rintanate nei buchi, nei cubicoli attorno alla platea, in ogni incavo di quella sassosa e solenne meraviglia”.
A Carbonia Levi è sorpreso da “quel fervore di libertà e di affermazione della persona umana … dove in pochi anni si è creato da un gruppo raccogliticcio di braccianti disoccupati e di contadini uno scelto proletariato industriale moderno..”.
Sono osservazioni in linea con il tema del riscatto del Sud, del crescere e progredire delle masse contadine, tanto caro a Levi e che sempre caratterizzerà i suoi scritti e la sua opera pittorica.
Levi viaggia nel sud della Sardegna disegnando e descrivendo figure e paesaggi, sottolineando con attenzione dettagli non sempre evidenti: “A Teulada le donne sono bellissime e selvatiche, e voltano la schiena con un rapido giro che fa oscillare le lunghe sottane…” “A Giba ci vengono incontro in bicicletta delle donne in costume: strana visione nella pianura assolata” .
L’articolo si chiude con Levi che lascia il Campidano per avviarsi verso il Gennargentu: “… le solitudini coperte di asfodeli della montagna, e Aritzo e Tonara e Nuoro, verso la misteriosa Sardegna di Orgosolo, di Oliena di Orune, dei paesi di pastori, che mi parevano ancora avvolti in un’ombra lontanissima”.
E quella Sardegna sarà meta del secondo viaggio di Carlo Levi nell’isola, nel 1962. Un viaggio che darà vita al volume “Tutto il miele è finito”, pubblicato da Einaudi nel 1964.
Il libro, che prende il titolo da un canto funebre dove la madre piange il figlio assassinato, paragonandolo al miele che non c’è più, descrive luoghi e volti dell’interno: Nuoro, Orgosolo e Orune in particolare, a cui è dedicato anche il dipinto in copertina. “Orune – scrive Levi – è per me uno dei luoghi della fantasia e della memoria; forse per il suono del suo nome, forse perché l’ho tenuta nella mia casa per anni nella sua forma di uccello, di snella, selvatica carroga dai neri occhi lucenti, con cui avevo finito, in qualche modo, per identificare quel paese, quei monti, quel vento d’aprile, e la cucina vecchia, nera di antico fumo, e gli attitos, e le poesie, e i balli sardi, e i pastori, e i ladri di pecore, e i latitanti di un mondo archeologico e presente”.
Una descrizione “barbarica e fiabesca”, come ebbe a scrivere Franco Antonicelli a proposito del libro di Levi, ma comunque vera, che con spaccati di vita reale, quasi da cronaca in diretta, entra nel merito di problemi quotidiani e sociali della comunità, completando e integrando quella visione di Orune “sul cocuzzolo grigio di una vetta di granito” descritta da Grazia Deledda in “Colombi e sparvieri”.
Uno stile narrativo che permea tutto il libro di Levi, rendendolo una delle più belle testimonianze sulla terra sarda: “una Sardegna di pietre e di pastori, e di uomini moderni e vivi”.

P.s.: Chi volesse leggere la bellissima storia della cornacchia “Orune” che Carlo Levi dalla Sardegna si portò a Torino, può farlo consultando il volume “Le ragioni dei topi. Storie di animali”, Donzelli Editore, 2004

Lina Merlin, confinata a Orune

L’assegnazione al confino politico ed i relativi provvedimenti amministrativi furono ampiamente utilizzati durante il fascismo per stroncare l’opposizione politica o, più semplicemente, per controllare chiunque non era inquadrato nella logica del regime.
Così, al confino finirono intellettuali, antifascisti, oppositori del regime, tutti costretti a vivere forzatamente lontani dal mondo nelle isole minori (Pantelleria, Ustica, Ventotene, Tremiti) o in località sperdute del Meridione e della Sardegna.
Il soggiorno a Eboli raccontato da Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli” è una delle testimonianze più alte di quel periodo; e se “La catena”, scritto in clandestinità da Emilio Lussu, racconta la vita dei confinati a Lipari,  le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci fanno rivivere la situazione di oppressione a cui erano sottoposti i confinati.
Tra le diverse centinai di confinati per motivi politici figura anche la futura senatrice Lina Merlin, passata alla storia per aver dato il nome a quella “Legge Merlin” che, nel dopoguerra, pose fine all’esistenza di bordelli e case chiuse.
Lina Merlin, nata nel 1887, inizia subito dopo la prima guerra mondiale la sua militanza nel Partito socialista e collabora a diversi giornali, tra cui “La Difesa delle Lavoratrici”, periodico fondato da Anna Kuliscioff.
Con l’avvento del fascismo, diventa una decisa oppositrice del regime. Nel 1924 le viene affidato il compito di segretaria del Comitato Elettorale del partito socialista veneto e, nel 1926, essendosi rifiutata di prestare giuramento di fedeltà al regime, viene licenziata dal posto di lavoro, arrestata per ben cinque volte, “perché irriducibile”, questa la motivazione della sentenza, viene condannata a scontare quattro anni di confino in Sardegna.
In una testimonianza pubblicata nel volume “Il prezzo della libertà. Episodi di lotta antifascista”, edito nel 1958 a cura dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, Lina Merlin racconta il suo trasferimento in Sardegna, unica donna, incatenata ad altri 50 detenuti comuni.
La prima destinazione fu Nuoro, ma siccome la città era “un covo di Sardisti avversi al regime”, fu trasferita a Dorgali dove rimase solo tre mesi in quanto “essendo divenuta, senza mio merito o colpa, troppo popolare, mi si mandò a Orune”. Di quel breve soggiorno dorgalese rimane una bella foto che ritrae Lina Merlin con il costume tradizionale. Del soggiorno a Orune, “quel cucuzzolo di montagna sempre battuto da un vento infernale”, Lina Merlin conserverà un ricordo indelebile: “gente arretrata, ma di cuore, quei pastori sardi, e dei miei rapporti con loro serberò grata memoria”.
Dopo gli anni di confino, “lunghi e dolorosi, perché il confino non è che una prigione all’aperto, dove si è costretti a subire la tortura morale di innumerevoli aguzzini e la doccia scozzese delle minacce e delle lusinghe”, Lina Merlin si trasferisce a Milano, si sposa, rimane vedova, entra in clandestinità, contribuisce a quella lotta di liberazione che assesta il colpo definitivo al regime fascista.
L’impegno della Merlin per la libertà continua nelle istituzioni, nel Senato, in Parlamento, sempre in prima fila per i diritti delle donne, dei lavoratori, dei più deboli.
Un impegno portato avanti sino alla sua morte avvenuta nel 1979.
Lo scritto di Lina Merlin nel citato libro del 1958 si conclude con una frase di Turati: “Bisogna saper soffrire per vincere”.
“Abbiamo noi vinto?”, si chiedeva allora la Merlin.
E in questo 25 aprile del 2010, 65° anniversario della Liberazione, ancora ci chiediamo: “Abbiamo noi vinto ?”