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“SARDUS PAPER”

E’ un progetto editoriale da me ideato e curato che punta a recuperare e valorizzare scritti brevi, poco conosciuti e spesso inediti, di argomento sardo.

Il nome “Sardus Paper” trae origine dalla divinità nuragica “Sardus Pater” e si basa sul gioco di parole che trasforma “Pater” in “Paper”, che, tra l’altro,  ricorda la voce papiru = carta in lingua sarda, chiaro riferimento al mondo dei libri.

Il progetto editoriale“Sardus Paper” prevede il recupero e la pubblicazione di vere e proprie rarità di argomento sardo,  scritti brevi poco noti se non addirittura inediti  a partire dal 1800 fino ai giorni nostri. In particolare saranno riproposti articoli, memorie e relazioni con lo scopo di far conoscere personaggi e vicende legate all’arte, alle scienze, alla storia, alle tradizioni e, in generale, alla cultura della Sardegna. “Sardus Paper” proporrà, inoltre, scritti inediti di autori contemporanei.

La scelta editoriale prevede una tiratura limitata di copie numerate che sarà possibile ricevere solo a richiesta: il progetto è rivolto, infatti, a un selezionato pubblico di collezionisti e bibliofili amanti della Sardegna e non seguirà, pertanto, i tradizionali canali di distribuzione. 

Sardus Paper”, progetto editoriale pubblicato con le Edizioni Nardini di Firenze (www.nardinieditore.it), non esclude collaborazioni con  autori, associazioni, enti e istituzioni sensibili a temi legati alla cultura sarda

Sardus Paper ha le seguenti caratteristiche:
* Una pubblicazione al mese di 40/60 pagine
* Tiratura 60/70 copie numerate. Stampa bianco/nero o colore
* Formato A5 – cm 15 x 21; Legatura con doppio punto metallico
* Font: Cocosardo e Monterchi Sans Light dello studio Zetafonts di Firenze.
* CartaTintoretto Gesso da 130 grammi (copertina 300 grammi)

PER INFORMMAZIONI E CONTATTI:
Angelino Mereu: mereuangelino@gmail.com – Tel. : 347.4889851
https://www.nardinieditore.it/categoria-prodotto/sardus-paper/

Arrivare in Sardegna

Una bella “Guida-orario” delle Ferrovie della Sardegna, pubblicata da Richter &Co. di Napoli ai primi del ‘900, descrive dettagliatamente itinerari e percorsi per visitare l’isola utilizzando il mezzo ferroviario e gli altri mezzi a disposizione. E’ una Sardegna d’altri tempi, senza auto, dove, ad esempio a Sassari, una corsa dalla stazione a qualsiasi punto della città, costa lire 0.60 con vettura a 1 cavallo e lire 1,00 con vettura a due cavalli.
La guida, oltre 100 pagine, è impreziosita dalla copertina a colori illustrata da Filippo Figari (autore anche delle 4 tavole a colori interne che raffigurano altrettanti costumi sardi), ed è ricchissima di immagini fotografiche che raffigurano vedute e scene di vita.

Altra caratteristica sono le pagine iniziali di ogni capitolo, illustrate con disegni di Giacinto Satta (1851-1912), artista e scrittore originario di Orosei.

Ma la guida offre anche altre curiosità, come ad esempio le avvertenze iniziali per i passeggeri che arrivano a Golfo Aranci, l’unico approdo giornaliero dell’isola.
Le riporto, invitando chi legge a uno sforzo supplementare di concentrazione per poter comprendere pienamente gli infernali meccanismi previsti.

Avvertenze.
In caso di breve ritardo del piroscafo da Civitavecchia, il treno che dovrebbe partire da Golfo Aranci alle 5,12 potrà ritardare la partenza fino alle ore 6,45 se il piroscafo sarà in vista del molo almeno alle ore 5,45.
Quando invece il piroscafo arrivi dopo partito il treno da Golfo Aranci si effettuerà un facoltativo alle ore 11,25 fino a Terranova, consentendo anche un ulteriore ritardo di un ora quando all’ora stabilita per la partenza il piroscafo sia in vista.
In tal caso i passeggeri diretti a Cagliari dovranno pernottare a Macomer per ripartire l’indomani col treno delle 4,50 o con quello delle 11,55; gli altri diretti a Sassari giungeranno in questa città nella stessa giornata alle 18,9.
Se il ritardo è tale che non consenta la coincidenza col treno che parte da Terranova alle 12,50 i passeggeri e la posta partiranno l’indomani col treno delle 5,12.

 Tutto Chiaro? e allora, che dire? Buon Viaggio!!

La Sardegna di Leo Neppi Modona

Nel 1971 la Editrice Sarda Fossataro di Cagliari pubblicò il volume “Viaggiatori in Sardegna”, curato da Leo Neppi Modona che, nel libro, aveva raccolto e ampliato una serie di suoi interventi trasmessi poco tempo prima dal Gazzettino Sardo. Neppi Modona, che aveva ricoperto l’incarico di docente di lingua francese presso l’Università di Cagliari, alla Sardegna era rimasto molto legato, tanto che quando morì nel1986, a soli 54 anni (era nato a Firenze nel 1932), la sua ricchissima biblioteca (oltre 8000 volumi) venne lasciata al comune di Cagliari, con la precisa indicazione di destinarla alla frazione di Pirri. 
Recentemente l’editore Aska di Firenze (2010) ha pubblicato il volume “Barbari nel secolo XX. Cronaca familiare (settembre 1938 – febbraio 1944)”, a cura di Caterina Del Vivo e Lionella Neppi Modona Viterbo, che raccoglie il diario, giorno per giorno, tenuto da Leo Neppi Modona dove, con occhi da bambino, ma con proprietà di linguaggio da adulto, descrive le atrocità e le persecuzioni a cui in quegli anni sono sottoposti gli ebrei a seguito dell’introduzione delle leggi razziali.

Il volume di Fossataro del 1971 parla della Sardegna così come l’hanno vista e raccontata decine di illustri visitatori, da Lawrence a Balzac, dai fratelli Alinari al padre gesuita Bresciani, ecc. Ma da quel libro mi piace estrarre la paginetta di prefazione scritta da Leo Neppi Modona che, nelle sue conclusioni, nonostante siano passati quarant’anni, appare di scottante attualità.

 ALLA SARDEGNA

La Sardegna è come un diamante dalle mille sfaccettature: ogni viaggiatore è venuto e ne ha osservato qualche aspetto, ha posto il diamante contro luce e ha preteso di vederne in breve tempo le virtù e i difetti. Ma ora è venuto il momento, ed anzi è il momento, perché domani sarà troppo tardi, che i Sardi prendano coscienza del valore della loro isola in ogni suo aspetto. Qui la vita è a una svolta: siamo ancora in grado di salvare questa meravigliosa isola. Lungo le nostre coste corrono i fili spinati, ma domani potrebbe correre il cemento armato. Noi forse siamo fortunati, perché a nessuno verrà in mente di costruire un ponte per unirci al continente, ma dobbiamo renderci conto di questa fortuna. Il ponte non c’è perché la Sardegna è un’isola, e deve restare un’isola, con qualcosa di diverso dal resto del mondo. Questo è appunto il vantaggio delle isole, che possono prender quel che vogliono dal continente e lasciare il resto, senza bisogno di elevare frontiere, purché sappiano difendere la loro peculiare natura. Se agiremo in questo senso, avremo ancora e sempre viaggiatori in Sardegna che sapranno apprezzarci, che troveranno presso di noi qualcosa di nuovo e di gustoso, come un frutto selvatico, se agiremo in questo senso, garantiremo a noi e ai nostri figli un angolo di pace e di severa tranquillità, se invece continueremo a dormire o a subire, saremo sempre di più un popolo colonizzato e cammineremo curvi e pazienti come i muli, per portare denaro fuori dall’isola a chi ci saprà sfruttare.

Leo Neppi Modona

La Sardegna di Alberto Frattini

Alberto Frattini (Firenze 1922 – Roma 2007), padre dell’attuale Ministro degli Affari Esteri, critico, poeta e professore universitario, nel 1969 pubblico un volume, “Scoperta di paesi”, di impressioni di viaggio, che raccoglieva note in stile “giornalistico” redatte dall’autore tra il 1944 e il 1966.
Il volume, pubblicato dall’Istituto Propaganda Libraria di Milano, riporta anche un capitolo dedicato alla Sardegna e a Cagliari in particolare.
Lo scritto risale al 1945 e Fratini riporta le impressioni sulla città martoriata dai bombardamenti: “qua e là, sul quadro panoramico, sono ben visibili i guasti dei bombardamenti … il porto dà un senso di squallore, di abbandono. Pare che anche la vita qui intristisca, come i radi ciuffi d’erba sulle rovine”.
Fratini continua il suo giro in città e non può fare a meno di sottolineare la “inquietante carenza di efficienti organi che mettano in valore le risorse naturali di questa non fortunata regione”.
L’isolamento storico della Sardegna è per Fratini la causa principale dell’abbandono dell’isola e “abbiamo sentito ripetere da più di un sardo che Roma abbia trattato l’isola né più né meno che come una colonia da sfruttare”. Nelle sue considerazioni, Frattini non manca di sottolineare “che di ciò i vari governi centrali debbano dividere le responsabilità”.
Nella sua narrazione, poi, Frattini racconta della visita alla Manifattura Tabacchi dove gli ambienti risultano saturi dalle esalazioni della lavorazione del tabacco. “”L’atmosfera – scrive – è come pervasa da un sottile aroma inebriante che a lungo andare dà, mi dicono, leggere vertigini. Più o meno tutte le lavoranti, donne di ogni età, recano nel fisico tracce di questo veleno profumato … il rosa diventa per i loro visi un colore perduto per sempre”.
E la “denuncia” continua segnalando le immani difficoltà in cui versa la popolazione: “Anche i poveri qui sono diversi da quelli del continente: un’altra fisionomia, si direbbe un’altra tragicità”. Poi la siccità, le cavallette, il bestiame che muore. In una parola un flagello.
“I sardi però non disperano”, continua Frattini, “credono nel lavoro, non si perdono nella cattiva sorte”.
Poi le considerazioni politiche: “Qua la gente, mi dicono, si occupa poco di beghe politiche, che non son fatte per chi ha l’assillo del lavoro e della fame: sembra però che il programma che riscuote i maggiori consensi sia quello impostato sulla formula autonomistica” che, per Frattini, “finisce per smarrire il senso della solidarietà nazionale”.
Frattini quindi, conclude con una valutazione: “Tuttavia per un paese come la Sardegna in cui le diverse forme di vita sociale ed economica sempre più necessitano di un incremento evolutivo non crediamo che la tendenza isolazionistica, risultante da una conseguente autonomia, potrebbe domani costituire una fruttuosa conquista”.

La Sardegna di Giuseppe Fanciulli

 

Alcune copertine del "Giornalino" realizzate da illustratori Sardi

Giuseppe Fanciulli (Firenze, 1881 – Castelveccana, 1951), giornalista e scrittore per l’infanzia, occupa un posto particolare per quanto attiene l’educazione di intere generazioni.
Quando Vamba (pseudonimo di Luigi Bertelli) fondò nel 1906 il Giornalino della domenica, infatti, Fanciulli ne fu redattore (talvolta sotto lo pseudonimo di Mastro Sapone), fino a quando le pubblicazioni furono sospese nel 1911. Collaborò di nuovo al Giornalino quando rinacque nel 1918 e, a partire dalla morte di Vamba (1920) ne divenne direttore fino al 1924.
Ebbene, in quegli anni Il Giornalino diventò una sorta di portavoce di un movimento di bambini, organizzati in gruppi quasi militareschi, che collaboravano al Giornalino con raccontini, foto disegni. Una organizzazione capillare, diffusa in tutte le città d’Italia, che coinvolgeva migliaia di bambini e ragazzi adolescenti.
La Sardegna, a scorrere i numeri del Giornalino, era abbondantemente rappresentata, con gruppi organizzati a Sassari, Cagliari, Nuoro (del gruppo di Nuoro faceva parte anche il bambino Indro Montanelli), con il gruppo di Sassari particolarmente attivo, grazie all’impegno costante di un giovanissimo Remo Branca.
L’attenzione del Giornalino per la Sardegna, si dimostrò anche con il coinvolgimento di alcuni artisti sardi che, negli anni, realizzarono diverse copertine. Iniziò Giuseppe Biasi, autore di numerose copertine nel primo periodo del Giornalino, e continuarono Melkiorre e Pino Melis, Edina Altara, Mario Mossa De Murtas, Remo Branca, Fabio Lumbau, Carmelo Floris, Antonino Pirari, Gigi Fadda.
Nei primi anni ’20 Fanciulli ebbe modo di visitare più volte la Sardegna, riportando sul Giornalino i resoconti dei suoi viaggi. Resoconti sempre attenti, fatti di descrizioni vive e vivaci: “Paesi coloriti come Porto Torres sul mare, bruni e ferrigni come Desulo o Aritzo nell’alta Barbagia, biondi e freschi come Orani ai piedi di monte Gonare, tutti esprimono la gioia pacata del vivere insieme; le loro case riempiono ogni anfratto, fanno cerchio intorno a una fonte, come la gente in una stanza, intorno al focolare”.

Giuseppe Fanciulli

Tale attenzione è dovuta anche al fatto che, nel suo girovagare, Fanciulli non è mai solo, ovunque si muova trova amici o affiliati al Giornalino che lo aspettano e si cura anche di incontrare personalità di spicco della cultura isolana: a Sassari incontra il musicista Gavino Gabriel, che con i figli esegue “la Taja”, “un canto corale a quattro voci, a volte cinque … il canto si snoda in armonie insolite e mobili, che fanno pensare al fumo cenerino levato dal fuoco del pastore verso un cielo viola”. Gira Nuoro e la Barbagia in compagnia di Remo Branca e di Tonino Siotto; descrive la valle del Tirso dove fervono i lavori per la costruzione della diga: “Un villaggio, Zuri, anderà sommerso: e no si può udire il quieto tintinnare delle sue campane, laggiù, senza pensare al giorno in cui l’alto velo delle acque soffocherà ogni voce”. A Cagliari incontra Francesco Ciusa, “entusiasta del suo nuovo lavoro, di quelle ceramiche che con tanto gusto riprendono motivi tradizionali sardi per portarli, fra poco, nel mondo grande”.
Prima di lasciare la Sardegna, da Cagliari, ancora una nota di colore: “… per un ultimo addio siamo saliti oltre i bastioni …. Il mare è d’azzurro intenso, il piano è d’oro; ritornano i due toni tipici del paese sardo … come un saluto di fantasioso oriente”.

La Sardegna di Mario Soldati

Il vino è qualcosa che vive e che fa parte della nostra vita, raccontarlo vuol dire parlare di noi, di persone e di paesaggi”. Questo scriveva Mario Soldati (1906 – 1999), e con questo spirito lo scrittore, nel 1975, affrontò il suo viaggio in Sardegna.

"Vino al vino" edizione Oscar Mondadori 1981 con i disegni di Francesco Tabusso

L’occasione gli fu data dal fatto che in quell’anno Soldati inizio il suo terzo viaggio alla scoperta dei vini italiani. I primi due viaggi avevano dato vita ad altrettanti volumi pubblicati con il titolo di “Vino al vino” rispettivamente nel 1969 e nel 1971.
Il terzo viaggio iniziò appunto con la Sardegna: “In quest’isola di gente dura, seria, dignitosa dovevo fermarmi solo pochi giorni, e invece rimarrò un mese”, scrisse Soldati.
E fu un mese intenso, alla scoperta dei vini, della Sardegna e dei sardi, facendosi accompagnare dagli scritti di Lawrence e, per i vini, dai consigli di Veronelli.
Il resoconto, oltre che nel terzo volume di “Vino al vino” (pubblicato nel 1975), apparve sotto forma di articolo anche sul numero 1359 della rivista “Epoca” del 20 ottobre 1976.
In dodici pagine di testo, con le foto di Giorgio Lotti, Soldati percorre strade, scopre vitigni, degusta vini, conosce persone. Annota e descrive tutto con la dovizia di dettagli tipica del grande cronista.

Soldati a Saccargia in una foto di Giorgio Lotti

Alcuni passi del suo viaggio sono veri e propri pezzi di bravura narrativa, come quando racconta del suo vagare per Sassari, una domenica mattina, alla ricerca di un barbiere aperto, o quando descrive la “Disneyland isolana” chiamata Costa Smeralda, o quando ancora entra nei dettagli del pranzo consumato a “Su Gologone” presso Oliena, oppure quando ricorda la ragazza del passaggio a livello di Bortigali, “Lucidi capelli neri. Un visetto da capra. Sottili gambe lunghe” .
Ma il meglio di se Soldati lo da quando parla dei vini: i tanti vini artigianali, che lo colpiscono per la varietà di gusti e di nomi (“Se esiste un vino che è vero soltanto quando non ha etichetta e quando non ha nome, è dunque il vino sardo”), la “luminosa” Malvasia di Bosa, la Vernaccia di San Vero Milis dal profumo deciso e intenso.
E parlando della Vernaccia, Soldati spiega il senso di armonia e di equilibrio legato al vino: “Un bicchiere di vino buono deve sempre dare una sensazione naturale di piacere, che eviti quell’urto, che escluda da parte nostra quello sforzo per superare, al primo contato con le papille gustative, come uno scalino.
Se l’acqua, infatti, è una roccia liquida filtrata attraverso strati di rocce solide benché terrose, il vino non è che acqua successivamente filtrata attraverso tessuti vegetali e viventi. Il vino è dunque un’acqua vivente, e un bicchiere di vino buono deve sempre assomigliare un po’ a un bicchiere d’acqua. Un bicchiere d’acqua quando il nostro corpo ha sete è come un bicchiere di vino quando ha sete la nostra anima. Ecco perché un pasto senza vino mi fa pensare a un bambino incapace di ridere”.
Molti giudizi di Soldati sono alquanto critici per l’eccessiva “industrializzazione” del prodotto che rischia di far perdere quel carattere di unicità che distingue la singola annata e, addirittura, la singola bottiglia. Sono giudizi che in Sardegna Soldati riserva ad alcune cantine sociali, sempre nella convinzione che “nel vino, come nella cucina, può succedere che il parere di una persona sola sia più giusto del parere di milioni di persone”.
E dopo un mese di vagare, Soldati lascia “la Sardegna, con i suoi spazi immensi e deserti, con i suoi altipiani rocciosi e tutti insieme sollevati in massa sul mare”. Una Sardegna che non esita a definire “pittorica” per l’assenza assoluta del pittoresco.
Una Sardegna che lascia con il rimpianto di non aver potuto visitare Carloforte e gustare i suoi vini, “ma proprio queste rinunce – scrive – , queste attese di un ritorno, questi desideri di scoprire ancora, si depositano nell’animo e innamorano di un paese”.

 Per chi volesse “viaggiare” nei vini italiani, l’ultima edizione di “Vino al vino”, che raccoglie i tre viaggi di Mario Soldati, è stata edita da Mondadori nella collana “Oscar grandi classici”, nel 2006. In questa edizione da leggere anche l’introduzione di Domenico Scarpa che traccia una “maestosa” figura di Mario Soldati e della sua opera.

La Sardegna di Costantino Nivola

Nel 1952 Costantino Nivola rientra per la prima volta in Sardegna dopo la fuga negli USA per evitare le persecuzioni del fascismo a seguito delle leggi razziali.
Nivola percorre in lungo e in largo l’isola con l’incarico di realizzare una serie di illustrazioni per documentare la lotta contro la malaria condotta dall’ERLAAS (Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna), un ente che godeva dei finanziamenti della Fondazione Rockefeller.
L’articolo (anonimo) dal titolo “DDT in Sardinia” e i gli acquerelli di Nivola vennero pubblicati sul numero di Marzo del 1953 della rivista “Fortune” che, tra l’altro, ha la particolarità di avere la copertina illustrata da Giovanni Pintori, grafico dell’Olivetti e grande amico di Nivola.
Il lavoro di Nivola diventa un vero e proprio reportage costituito da 21 illustrazioni dove l’artista si sofferma sui tratti salienti della lotta alle zanzare, senza trascurare di documentare caratteristiche e dettagli della vita quotidiana in Sardegna.
Una testimonianza che, ancora una volta, dimostra il profondo legame di Nivola con la Sardegna e che, nella serie delle immagini, si dipana come un film: quasi un susseguirsi di fotogrammi che hanno senso compiuto di testimonianza anche senza l’ausilio del testo o delle didascalie.
Uno spaccato interessantissimo che testimonia delle condizioni in cui versava la Sardegna nell’immediato dopoguerra, di come potevano essere le strade o le abitazioni, di quali erano gli usi e i costumi: il carro della prima figura, la venditrice di “testine d’agnello”, le bancarelle della festa, il pastore che prepara il formaggio, l’interno delle povere case, le donne che filano, il pianto per il figlio morto, il banditore (chiaramente riferito a Orani, con lo sfondo del Monte Gonare, che sembra quasi la foto del banditore fatta da Bavagnoli per la mostra di Nivola del ’58 a Orani), il brulicare del porto di Cagliari.
E poi i dettagli della lotta alla malaria, perfetti nella loro estrema sintesi, comprensibili ai più e molto più efficaci di qualsiasi spiegazione tecnica o accademica.
L’articolo spiega in dettaglio quanto fatto in Sardegna e quanto l’azione sia stata incisiva per la tempestività con cui venne condotta, anche se, come conclude l’anonimo estensore, “Con la sconfitta della malaria, che è stato definito come il più grande evento nella storia della Sardegna, i Sardi sperano che sia stata aperta la strada allo sviluppo delle risorse agricole e minerarie. Ma i processi dei politici e della società si muovono a un ritmo ben più lento che la campagna anti malarica. Gli italiani solo ora cominciano a fare studi approfonditi sulle loro possibilità economiche. Le speranze dei Sardi non potranno diventare realtà prima che questi processi siano sviluppati e messi in pratica”.
Ed eccoli gli acquerelli di Nivola, riprodotti con le loro didascalie originali.

Figura 1
Una bandiera gialla e rossa identifica questa casa di un pastore nelle montagne sarde come un ufficio di distretto nella recente campagna contro le zanzare portatrici della malaria, conclusa con successo. Dopo quattro anni e mezzo la zanzara è stata sconfitta, e l’isola liberata da un’antica piaga.

 

Figura 2
Le caverne e le costruzioni della preistorica civiltà nuragica simboleggiano ancora l’indipendenza e l’orgoglio dei Sardi.

 Figura 3
Villaggio pietroso tra le montagne.

 

 

 

Figura 4
Venditori di dolci a una festa.

 

 

Figura 5
Le testine di pecora costituiscono parte dell’alimentazione.

 

Figura 6
L’interno di una casa di pastori, con il forno e il caminetto; i letti sono fatti con stuoie sparse sul pavimento.

 

  

Figura 7
Il formaggio è prodotto nelle capanne dei pastori.

 

 

Figura 8
Le donne vegliano sedute un moribondo disteso sul pavimento, vittima della malaria.

 

Figura 9
Dopo la morte l’emozione è forte, e le donne cantano il lamento funebre.

 

 

 Figura 10
La lotta alla malaria è arrivata troppo tardi, le vedove vestono in bianco e nero.

 Figura 11
Il banditore del villaggio annuncia l’inizio della campagna anti malarica

 

Figura 12
Le paludi sono state bonificate e disinfestate.

 

 

Figura 13
Gli esemplari di larve sono trasferiti dalle acque infestate a ciottole fissate a lunghi pali.

Figura 14
È stata un’ardua impresa trovare i siti di deposizione delle uova.

Figura 15
Dopo la campagna, i disoccupati sono tornati nelle piazze.

Figura 16
Ogni strada e ogni vicoletto sono stati trattati con lo spray.

 

Figura 17
Cimici e pulci sono state eliminate

 

Figura 18
Ogni casa trattata col DDT è stata segnata con la data della disinfestazione.

 

Figura 19
Anche gli asinelli sono stati spruzzati di DDT.

Figura 20
Il mercato del pesce a Cagliari, la capitale.

 

Figura 21 – Cagliari, al sud, è la città più grande (130.000 abitanti) e il maggior porto della Sardegna.

 

 

 

La Sardegna di Carlo Levi

Spinto dalla sua personale ricerca e scoperta del Sud, tra il 1951 e il 1952 Carlo Levi (1902-1975) compì un viaggio in Calabria, da Melissa alla Sila, accompagnato da Rocco Scotellaro, visitò la Sicilia e, per la prima volta, approdò in Sardegna.
La cronaca di questo primo viaggio in Sardegna venne pubblicata in due puntate su L’Illustrazione Italiana, nei numeri 6 e 7 di giugno e luglio del 1952, accompagnata da numerose foto scattate da Federico Patellani e dallo stesso Levi.
Nel suo viaggiare, Levi trova una Sardegna caratterizzata da differenti modi di vita che convivono, uno vicino all’altro: “Una civiltà di pastori si trasforma in parte in una civiltà contadina, tra lotte e contrasti continui, e sorgono centri operai, come isole in un deserto, e se ne sente il peso e l’influenza sul costume”.

Carlo Levi, “Autoritratto”, 1945, olio su tela, cm 42x34, Roma, Fondazione Carlo Levi

Cagliari è ancora profondamente ferita dai bombardamenti della guerra e Levi rimane colpito dalla moltitudine di persone che popolano le “grotte” di S.Avendrace e i cunicoli del teatro romano; centinai di uomini, donne e bambini “…rintanate nei buchi, nei cubicoli attorno alla platea, in ogni incavo di quella sassosa e solenne meraviglia”.
A Carbonia Levi è sorpreso da “quel fervore di libertà e di affermazione della persona umana … dove in pochi anni si è creato da un gruppo raccogliticcio di braccianti disoccupati e di contadini uno scelto proletariato industriale moderno..”.
Sono osservazioni in linea con il tema del riscatto del Sud, del crescere e progredire delle masse contadine, tanto caro a Levi e che sempre caratterizzerà i suoi scritti e la sua opera pittorica.
Levi viaggia nel sud della Sardegna disegnando e descrivendo figure e paesaggi, sottolineando con attenzione dettagli non sempre evidenti: “A Teulada le donne sono bellissime e selvatiche, e voltano la schiena con un rapido giro che fa oscillare le lunghe sottane…” “A Giba ci vengono incontro in bicicletta delle donne in costume: strana visione nella pianura assolata” .
L’articolo si chiude con Levi che lascia il Campidano per avviarsi verso il Gennargentu: “… le solitudini coperte di asfodeli della montagna, e Aritzo e Tonara e Nuoro, verso la misteriosa Sardegna di Orgosolo, di Oliena di Orune, dei paesi di pastori, che mi parevano ancora avvolti in un’ombra lontanissima”.
E quella Sardegna sarà meta del secondo viaggio di Carlo Levi nell’isola, nel 1962. Un viaggio che darà vita al volume “Tutto il miele è finito”, pubblicato da Einaudi nel 1964.
Il libro, che prende il titolo da un canto funebre dove la madre piange il figlio assassinato, paragonandolo al miele che non c’è più, descrive luoghi e volti dell’interno: Nuoro, Orgosolo e Orune in particolare, a cui è dedicato anche il dipinto in copertina. “Orune – scrive Levi – è per me uno dei luoghi della fantasia e della memoria; forse per il suono del suo nome, forse perché l’ho tenuta nella mia casa per anni nella sua forma di uccello, di snella, selvatica carroga dai neri occhi lucenti, con cui avevo finito, in qualche modo, per identificare quel paese, quei monti, quel vento d’aprile, e la cucina vecchia, nera di antico fumo, e gli attitos, e le poesie, e i balli sardi, e i pastori, e i ladri di pecore, e i latitanti di un mondo archeologico e presente”.
Una descrizione “barbarica e fiabesca”, come ebbe a scrivere Franco Antonicelli a proposito del libro di Levi, ma comunque vera, che con spaccati di vita reale, quasi da cronaca in diretta, entra nel merito di problemi quotidiani e sociali della comunità, completando e integrando quella visione di Orune “sul cocuzzolo grigio di una vetta di granito” descritta da Grazia Deledda in “Colombi e sparvieri”.
Uno stile narrativo che permea tutto il libro di Levi, rendendolo una delle più belle testimonianze sulla terra sarda: “una Sardegna di pietre e di pastori, e di uomini moderni e vivi”.

P.s.: Chi volesse leggere la bellissima storia della cornacchia “Orune” che Carlo Levi dalla Sardegna si portò a Torino, può farlo consultando il volume “Le ragioni dei topi. Storie di animali”, Donzelli Editore, 2004

La Sardegna di Massimo Bontempelli

Nel 1930 Massimo Bontempelli (1878-1960) pubblicò il volume “Stato di grazia”, edito dalla casa editrice Stock di Roma in una edizione quasi limitata, con diffusione riservata a pochi amici.
Qualche anno dopo, per le edizioni “Panorama” di Milano, pubblica “Pezzi di mondo”, una raccolta di pagine di viaggio dove compare un capitolo, datato 1931, dedicato alla Barbagia. Il volume è del dicembre 1935, ha la copertina in carta paglia e, come si legge nella copertina posteriore, risulta “stampato in Italia nel tempo dell’assedio economico”.
Nel 1942 l’Editore Sansoni di Firenze, sotto il titolo “Stato di grazia” ristampa i due testi in un unico volume.

Nelle sette pagine dedicate alla Barbagia, Bontempelli racconta del suo viaggio a cavallo per i paesi dell’interno: “Sopra uno di questi lenti cavalli, avvolto dall’odore della volpe e dall’odore della capra, ho girato tutta la Barbagia di Ollolai, facendo centro a Orgosolo, spingendomi per strade e viottoli fino a Mamoiada fino a Fonni fino a Oliena fino a Gavoi; e per le calde vigne di Locoe, e nel vallone di Sorasi; su per l’altipiano di Sant’Antioco; verso le falde prime del Gennargentu”.

Da sinistra Vincenzo Cardarelli, Massimo Bontempelli, e Alberto Savinio in una foto del 1920

Nel suo vagare lo scrittore è attratto da un aspetto “geologico” che tutto riconduce, anche gli esseri umani, alle pietre e all’arido terreno.
Di tratto in tratto m’assale il dubbio che tutta questa terra sia intimamente cosciente del suo aspetto di vasta desolazione, che vi sia in tutto questo una affettazione di sterilità. Certo qui domina uno spirito geologico, geologici documenti appaiono anche i rari uomini, che colorati dai riflessi dello stinco bruciato, lenti movono su lontani pendii. Ma ogni tanto un ontano inchioda alla roccia il filo curioso d’una sorgente; in fondo alle valli strisce argentee o tremule di pioppi segnalano e disegnano il tenue corso di un’acqua.
Sotto i macchioni segreti s’agita e silenziosa corre una fauna rigogliosissima di quadrupedi rapidi e di pomposi uccelli. Li ho visti muoversi e vivere e di mala morte morire. Ma nell’occhio l’anima si manteneva in una sorda immobilità. Ho capito allora che tutti son nati di pietra. Gli uccelli volano bassi schiacciati al suolo dalle nuvole dure e dal peso del loro corpo. I falchi spingono avanti inutilmente il petto di peperino lucido, le abbaiole par che debbano perdere nel vento le ali di malachite: voli innumerevoli di storni tratti chi sa come dal basalto intagliabile; e perfino le gazze e i passeri, tutto è nato di pietra, colorata pietra e ben tornita e morbida ma greve. Pietra è il loro cuore e l’occhio. Non si spaventano, nell’agonia non gemono; colpiti muovono sempre più lento le ali e le restringono, e tutto il corpo cosi rattrappiscono piano piano, fino a perdere la forma animale, diventare un ciottolo. A tenerli in mano morti non danno angoscia; ma fa ribrezzo toccarli vivi, come farebbe un animale meccanico”.
In questo suo vagare per una terra dove “Tutti gli animali, uomini e donne compresi, e la terra e l’aria e tutte le cose e i loro movimenti, mandano un ardente odore di capra”, Bontempelli continua la sua disamina che mette sullo stesso piano bestie e uomini: “Poi ci sono i cavalli, gli asini, le capre, i maiali, le pecore, i cani. Sono impastati di terra e sassi, in modo grossolano e primitivo, pieni di poesia e bellezza. Sono magri, sudici, annosi e sterili. L’aspetto della sterilità avvolge la Barbagia fino nelle sue donne. Le quali sono tenuissime e pallide e difese dalle sette gonnelle sovrapposte, come vuole il costume”.
La descrizione si sofferma sul costume e le donne che lo indossano, “nero con la camicia bianca chiusa sul petto”, assumono l’eleganza delle rondini.

Costumi della Barbagia in una cartolina degli anni '20

Bontempelli confessa poi che “Qui in Sardegna, o almeno qui in Barbagia, mi accade per la prima volta che il costume regionale e tradizionale non mi dia l’intenso fastidio che tali costumi m’han dato sempre e dappertutto, da Capri alle isole dello Zuidersee. Perché qui esso non è diventato folclore, lo portano in piena sincerità, non sanno che è costume”.
Lo scrittore racconta di aver avuto “l’allucinante certezza” di trovarsi in una scena da Odissea entrando in uno “stazzu” del Supramonte: “un gran fuoco di legna è in terra nel mezzo, sulle prime ti par d’essere piuttosto in una rudimentale fucina che in una cucina. Da quel centro di vulcano il fumo con una nobile spirale girando va a uscire per varii buchi del tetto. Presso il fuoco un vecchio di ottant’anni in costume seduto in terra sta facendo cuocere un quarto di porco. Lo regge infilato in un lungo stecco di durissimo legno, e cosi lo gira pianamente entro il caldo del fuoco; ora lo avvicina ora lo discosta, tiene più a lungo presso la brace le parti più muscolose e solide, allontana invece le parti grasse onde loro non giungano del gran calore se non attenuate carezze: alterna in tal modo e varia di continuo il viaggio della carne tra le zone del calore con una serie di accortezze secolari. Mangiando poi di quel porco ho capito per la prima volta il peccato della gola; anche ho capito che l’arte cucinaria, esattamente come la poesia, nasce perfetta all’origine e non può nulla imparare dalla esperienza dei secoli”.
Prima di rimontare a cavallo Bontempelli domanda a uno di questi vecchi: “Hai mai visto il mare?”. La risposta è lapidaria: “Neppure Mamoiada vidi. Ma il mare un fiume terribile è. Dalle cime di sasso onde stiamo per allontanarci, tutt’intorno dilaga la terra arida. Lui la guarda e senza sorridere dice: “Terra sicura”.
E lo scrittore si avvia su quella “terra sicura”, verso valle dove dominano gli aromi del serpillo e del timo, lasciando alle cime del Supramonte e ai suoi abitanti di pietra, “l’universale odore della capra”.

Il principe romano e la Madonna di Bonaria

Quando il principe Baldassarre Odescalchi decise di fare una gita a Cagliari, eravamo alla fine dell’800 e il resoconto di tale gita si trova pubblicato nel volumetto “Impressioni di storia e d’arte”, edito dalla Casa Editrice Edoardo Perino di Roma nel 1896.
Gli appunti di viaggio vennero redatti da Odescalchi ad uso del signor Decio Cortesi, uno degli editori del Fanfulla della domenica, giornale che veniva stampato nella Capitale e che ogni tanto si occupava di cose “esotiche”, come poteva essere la cronaca di un viaggio in Sardegna.
Il resoconto della “gita” a Cagliari occupa una trentina di pagine del volumetto (che raccoglie anche altri scritti non sardi) e parte dal momento dello sbarco a Golfo Aranci: “un molo ed un poco più in su la stazione della ferrovia; edificio solitario in mezzo a tanta desolazione della natura”.
E qui iniziano subito i “ritmi” sardi: “il treno, partito dal golfo, dopo tre o quattro minuti, arriva alla stazione, e li si ferma per quaranta minuti”. E avanti così, “a passo di lumaca, in dodici ore si arriva a Cagliari”.
Un impatto non certo degno della “modernità” del ‘900 che si avvicina e sicuramente non degno al rango del principe. Ma così è, e bisogna adattarsi!!
Una volta a Cagliari Odescalchi non osa addentrarsi nell’interno, rimandando a periodi più favorevoli, a causa del “caldo veramente tropicale e della malaria che infieriva in questa stagione”, e decide, pertanto, di dedicarsi alla scoperta di “una città di circa quarantamila abitanti, posta in un luogo elevato in mezzo ad un bellissimo paesaggio”.

Cagliari in un acquerello del 1912 di Louise Radigois

Visita il museo archeologico e lo descrive con dovizia di particolari, soffermandosi anche su un grande modello di nuraghe in sughero “che, aprendosi per mezzo, rende visibile tutta la costruzione interna del monumento”, e affermando come sia “curioso notare che questa, oggi preziosa raccolta, ebbe origine con un dono di oggetti falsi fatto dal La Marmora”.
La visita continua con la chiesa di Santa Cecilia, cattedrale di Cagliari, che Odescalchi descrive per gli aspetti storici, artistici e per i tesori sacri ivi posseduti: “In questo tesoro si conserva ancora un trittico dipinto, nel cui centro è la Vergine col Cristo deposto dalla croce, e su gli sportelli Sant’Anna e Santa Margherita. Raccontano che questo prezioso dipinto appartenesse al Papa Clemente VII che, lo teneva carissimo nelle sue stanze private, e che, nel sacco di Roma, venisse rubato da un soldato sardo, il quale poi pentitosi, e confessato il suo peccato, ebbe ordine dal Pontefice di darlo alla cattedrale di Cagliari”.

L'anfiteatro di Cagliari in un disegno di J.B.Barla del 1841

Ode scalchi continua il suo tour visitando l’anfiteatro romano, “tagliato nella roccia sul declivio d’un colle in prossimità del mare”, e spingendosi sino alle saline, “che sono le più importanti d’Italia”. 

Acquerello di J.B.Barla del 1841

A Quartu la gita assume carattere etnico e il principe assiste alla vestizione di una ragazza con il ricchissimo costume “tutto di velluto e broccato, e sopracarico di ornamenti in oro, collane, pendoli, grandi orecchini in filigrana, con le dita coperte di anelli sino all’ultima falange”; antesignano della globalizzazione, Odescalchi sottolinea che i costumi tradizionali stanno pian piano scomparendo e che “fra breve i grandi magazzini avranno portato ad assoluta uguaglianza il vestire di tutto il genere umano”.
L’ultimo giorno del soggiorno cagliaritano, il principe lo dedica alla visita della Basilica della Vergine di Bonaria. Anche in questo caso ne traccia la storia e descrive la struttura e i suoi tesori artistici, soffermandosi sulla descrizione dei numerosi ex-voto conservati nella chiesa.
Si addentra poi in una “spinosa” disquisizione dove, in generale, critica la mancanza di studi seriamente scientifici sulle tante immagini sacre conservate nei vari santuari d’Italia, per poi affermare, senza tema di smentita, a proposito della statua lignea della Madonna di Bonaria, che si tratta di una scultura spagnola della fine del ‘500 o primi del ‘600. Questo contrariamente a quanto affermato dalla leggenda, che vuole la scultura restituita dal mare, a seguito del naufragio di una nave, nell’anno 1370. “Ora dunque – afferma Odescalchi – o la nave non è qui approdata nel secolo decimo quarto, ma invece nel decimo sesto, o al principio del decimo settimo, oppure quella statua non è più la primitiva”.
Concludendo il suo ragionamento il principe afferma che “per quel che ho detto, se stessi ancora in Cagliari, i miei buoni amici di colà sarebbero capaci di lapidarmi”.
Ma il principe non è più in Sardegna: è già ripartito. Stavolta, però, direttamente da Cagliari con il piroscafo diretto a Napoli, in modo da evitare, anche al ritorno, quelle insopportabili 12 ore di treno.