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1911: nasce “L’ EROICA”

il primo numero de L'Eroica del 1911

La rivista “L’Eroica”, fondata aLa Spezia nel 1911 da Ettore Cozzani e Franco Oliva, spicca nel panorama del Novecento italiano per il vasto dibattito culturale che riuscì a sviluppare.
Nata per affermare la supremazia della creatività rispetto all’invadenza  della riflessione critica, puntò molto sull’impegno “artigianale” dei diversi collaboratori, in contrapposizione al rischio di appiattimento del gusto nella società industriale.
La veste grafica e l’uso di xilografie originali, dunque, assunsero molta importanza, diventando la caratteristica più saliente della rivista  ed elemento qualificante dei contenuti.

1915: numero dedicato agli xilografi italiani

La scelta della xilografia non fu casuale. Tra le pratiche incisorie, infatti, è la più antica e la più “naturale”. Lascia intravedere la venatura del legno e il “tratto” dell’artista che, con la sgorbia, crea le matrici per l’incisione.
In questa riscoperta della xilografia, “L’Eroica” rientra in quel filone che, già dalla fine dell’Ottocento, soprattutto nell’ambiente delle secessioni e del modernismo europeo, aveva rivalutato tale tecnica, relegata, prima di allora, a livello di arte popolare.
L’Eroica conosce due periodi ben distinti: il primo dal 1911 al 1915, sicuramente più interessante per qualità

Numero dedicato a Remo Branca

artistica e dibattito estetico e ideologico. Il secondo dal 1919 al 1944 dai connotati più conservatori.
I primi numeri della rivista sono dominati dalla figura di Adolfo de Carolis, autore di incisioni caratterizzate da raffinati preziosismi neo-rinascimentali. In questo periodo collaborano alcuni artisti, come Francesco Nonni, Carlo Turina, Mario Reviglione, Benvenuto Disertori e l’austriaco Franz von Bayros, molto vicini allo stile di de Carolis. Non mancano, comunque, contributi di artisti più orientati verso il modernismo, quali Felice Casorati, Arturo Martini-Della Valle, Gino Carlo Sensani, Guido Marussig, Giulio Aristide

Fascicolo dedicato a Stanis Dessy

Sartorio,  se non addirittura caratterizzati in senso più espressionista, come Emilio Mantelli, Lorenzo Viani, Gino Rossi, Moses Levy.
Nel dibattito culturale sulla rivista, le due tendenze si scontrano e, nel 1914, si viene a creare una divergenza insanabile tra i seguaci di De Carolis e i promotori della nuova espressività che fanno capo a Emilio Mantelli, divergenza che si incentra proprio sull’uso del mezzo tecnico della xilografia. Il gruppo “secessionista” riesce a prevalere e un articolo di Ettore Cozzani sancisce l’insofferenza nei confronti della xilografia usata come mezzo di riproduzione di

Fascicolo dedicato a Mario Delitala

un disegno chiaroscurato e dai contorni molto netti, a prescindere dalle caratteristiche intrinseche del materiale e dei mezzi.
Lo “spartiacqua” tra la scuola di De Carolis e il nuovo gruppo di xilografi, è costituito dal Fascicolo de L’Eroica di Gennaio/marzo del 1915, dedicato agli xilografi italiani, e impreziosito dalle xilografie originali di Lorenzo Viani, Alberto Caligiani, Mario Mossa de Murtas, Nicola Galante, Guido Marussig, Arturo Martini della Valle, Giulio Guerrieri, Emilio Mantelli, Felice Casorati, Moses Levy, Antonio Antony de Witt, Gino Carlo Sensani, M.Benvenuto Disertori, Giuseppe Biasi.
Come si può notare, nella schiera dei “secessionisti”, c’erano anche i sardi Mossa de Murtas e Biasi la cui collaborazione a L’Eroica, comunque, si limitò esclusivamente a questo numero.
Con la ripresa delle pubblicazioni nel 1919, L’Eroica abbandonò, in parte, lo spirito che l’aveva animata nei primi anni, anche se continuerà a mantenersi fedele al suo antiavanguardismo.
Cozzani diventa promotore instancabile della rivista, coinvolgendo artisti e autori italiani e non.
Tra i tanti collaboratori si distinguono i sardi, Mario Delitala, Stanis Dessy e Remo Branca che vedranno pubblicate in più occasioni le loro incisioni ed ai quali saranno dedicati anche alcuni fascicoli monografici: Tale affermazione porterà critici ed estimatori a parlare apertamente di una “Scuola sarda” per quanto rigurda la xilografia.
La rivista è stata pubblicata fino al 1944 per un totale di 310 numeri e, come ha scritto Ralph Jentsch, “rappresenta un monumento editoriale, un repertorio fondamentale per osservare i mutamenti dello stile e l’oscillazione del gusto in un trentennio, oltre a permetterci la riscoperta appassionata di tanti artisti dimenticati”.

Eligio Pintore, pittore del Risorgimento

Nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, a cura della rivista “Il Convegno” di Cagliari, venne pubblicato un volume, “Sardegna e Risorgimento”, dove venivano ricordate alcune figure di personaggi sardi che avevano contribuito ai fatti risorgimentali e all’Unità d’Italia.
Scritti di Pietro Leo, Agostino Cerioni, F.Loddo-Canepa, Nicola Valle, e altri, ricordavano le figure di Gaeteno Lai, Mario De Candia, Goffredo Mameli, ecc.
Pietro Leo, nel capitolo da lui curato (“La Sardegna e l’Unità d’Italia”), tra gli altri personaggi, ricorda il pittore Eligio Pintore, nato a Bonorva nel 1831 e morto a Genova nel 1914, di cui aveva già tracciato figura e opera in uno scritto del 1947 (Pietro Leo, “Un pittore sardo del Risorgimento Eligio Pintore”, Sassari, Tip. Gallizzi, 1947).
Pintore, lasciò la Sardegna, probabilmente in quanto richiamato militare. Tant’è vero che nel 1856 faceva parte del contingente piemontese inviato da Cavour in Crimea. In quell’occasione Pintore assunse quasi una funzione da reporter, realizzando una serie di acquarelli (oltre 70) con scene riprese dal vero che rendono l’atmosfera della vita quotidiana nel campo militare. Questi acquerelli sono conservati nel Museo del Risorgimento di Genova, città dove Pintore visse e lavoro.
Nel volume “Sardegna e Risorgimento” sono riprodotti due acquerelli di Pintore, tra cui un ritratto di Garibaldi, probabilmente realizzati durante le campagne militari del 1860/1861 a cui l’artista partecipò.
Di Eligio Pintore rimangono poche opere e scarse notizie sulla sua vita (oltre allo scritto di Pietro Leo, il bel volume della collana Storia dell’Arte in Sardegna, “Pittura e scultura dell’800” di Maria Grazia Scano).
Sappiamo che a Genova, tra il 1868 e il 1870, collaborò come vignettista e caricaturista al giornale “Lo Specchio” e che nel 1885 illustrò un testo scolastico (L’aritmetica di Ninì, di Antonio Pastore). Sempre a Genova aveva uno studio frequentato da allievi (tra cui il pittore e illustratore Giovanni Ardy), e, nel 1892, in occasioni delle celebrazioni italo-americane per la scoperta dell’America, disegnò una medaglia commemorativa destinata ai visitatori dell’esposizione (realizzata dall’ incisore A. Bocelli di Milano) e i costumi del corteo storico.
I rapporti di Pintore con la Sardegna furono molto scarsi. Dal periodico popolare “La stella di Sardegna”, stampato a Sassari nel dicembre 1875, abbiamo notizia che realizzò il ritratto della suora di carità Lucia Mannu Ledà  e che “col semplice sussidio di una fotografia” realizzò “un ritratto pieno di vita e di anima…. Freschezza di colorito, morbidezza di tinte, purezza di contorno, sono i pregi che vanta questo bel ritratto del Pintore”. Sappiamo, inoltre, che concorse con scarso successo al bando per la decorazione della Sala delle adunanze del Consiglio Provinciale di Sassari, e che intervenne con alcune opere all’Esposizione Artistica Sarda a Sassari nel 1896.

Di Eligio Pintore posseggo un acquerello che, a quanto mi risulta, è l’unica opera di soggetto sardo di cui si abbia traccia. L’acquerello (cm 26 x 16) rappresenta un paesaggio con nuraghe e vecchio in costume, in primo piano, sul ciglio della strada. Sullo sfondo montagne con cime altissime che, certamente, non fanno parte del paesaggio tipico sardo, ma che rimandano a quello stile “neogotico” che a fine ‘800 imperversava nelle arti figurative e in letteratura. Un acquerello che, come ebbe a scrivere Orlando Grosso nel 1912 a proposito dei lavori di Pintore, fa rivivere una “serena comprensione della natura e del bello”.

1891-2011: 120 anni fa nasceva Antonio Gramsci

Carissima mamma,
Sto per partire per Roma. Oramai è certo. Questa lettera mi è stata data appunto per annunziarti il trasloco. Perciò scrivimi a Roma d’ora innanzi e finché io non ti abbia avvertito di un altro trasloco.
Ieri ho ricevuto un’assicurata di Carlo del maggio. Mi scrive che mi manderà la tua fotografia: sarò molto contento. A quest’ora ti deve essere giunta la fotografia di Delio che ti ho spedito una decina di giorni fa, raccomandata. Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.
Ti abbraccio teneramente. Nino
Ti scriverà subito da Roma. Di’ a Carlo che stia allegro e che lo ringrazio infinitamente. Baci a tutti.

Questo scriveva Antonio Gramsci alla madre il 10 maggio 1928 quando era in procinto di essere trasferito dal carcere giudiziario di Milano destinazione Roma dove, assieme agli altri dirigenti del P.C.I., dal 28 maggio al 4 giugno, fu processato davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Imputato e riconosciuto colpevole dei reati di cospirazione e di incitamento all’odio di classe, di incitamento alla guerra civile, all’insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo, Gramsci, il 4 giugno 1928, venne condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Assegnato dapprima al penitenziario di Portolongone, dopo una visita medica speciale fu destinato alla Casa penale di Turi per condannati sofferenti di mali fisici e psichici, e lasciò Roma l’8 luglio 1928 in « traduzione ordinaria».
Gramsci nato il 22 gennaio del 1891, anche a seguito dei patimenti subiti nella sua lunga prigionia, morì a 46 anni in clinica a Roma il 27 aprile 1937 .

 La lettera è tratta da “Lettere dal carcere”, pubblicate da Einaudi nella collana “Nuova Universale” nel 1965, a cura di Sergio Caprioglio e Elsa Fubini